Ho alzato gli occhi dal computer, al tavolino del bar, perché sentivo il peso di uno sguardo. Lei difatti era lì, diritta davanti a me, in silenzio. Siamo rimaste così qualche secondo, a guardarci, io non ho chiesto lei non ha chiesto. Ho letto la scritta sulla sua maglietta bianca: “Ricordati di respirare”. Le ho sorriso, in quel momento ho capito: la cameriera. Una cameriera silenziosa che continuava a non chiedere “cosa prende?”, semplicemente aspettava. Ho ordinato qualcosa, poi – credo solo per il desiderio di sentire la sua voce – le ho detto: “Che bella maglia, dove l’ha trovata?”. Con un accento che non ho riconosciuto ha risposto, in italiano sillabato: “Mi hanno regalata”. Le ho domandato da dove venisse, mi ha risposto Doesburg, Olanda. Le ho chiesto se fosse in Italia per studiare e mi ha detto sì. Non voleva o non poteva continuare a conversare, quindi si è voltata con un gesto quasi di scusa, ha fatto qualche passo verso l’interno del bar ma si è fermata e dalla distanza – la stavo ancora guardando – mi ha detto: «È perché canto. Studio canto».
Certo. Ricordati di respirare. Ecco perché. Per il canto. Da ragazza, quando facevamo lezione di dettato musicale (trascrivere sul pentagramma bianco una melodia che la maestra intonava, o suonava al piano) ero sveltissima: non so dire come ma sentivo e facilmente segnavo. La tonalità, la chiave, la lunghezza delle note e delle pause. Come se fosse naturale, ovvio, mettere per scritto un suono. Era come istintivo anche se no, certo: veniva da un grande lavoro di studio e di ascolto, anni. Quando poi, dopo, dovevamo cantare a nostra volta la melodia trascritta sempre, ma sempre, la mia velocità nel trascrivere così invidiata dai compagni di corso precipitava nell’incapacità di intonare. Un’esperienza di gloria breve, che mi avrebbe per la vita accompagnata. «Non respiri», mi diceva la maestra sotto gli occhi risarciti della classe, e mi sembrava con evidenza falso: ero viva, lo sono ancora quarant’anni dopo, perciò respiravo. Io non capivo, e lei non riusciva a spiegarmi che non respiravo “bene”. Non nel modo giusto. Nessuno, nel tempo, è riuscito a insegnarmi. Sì certo, il diaframma. Il pavimento pelvico. La risonanza. Gli anfratti cranici. Eppure: niente. Nemmeno l’amore mi ha dato la risposta: era di fretta. Ancora adesso, quando parlo a lungo, c’è sempre qualcuno che mi dice: sei in apnea. Eppure non mi sembra. L’altro giorno Lucia, la mia strepitosa maestra di consapevolezza del corpo nello spazio – non mi arrendo, sono ancora a lezione – mi ha detto bene, meglio: ma ricordati di respirare. Abbiamo riso. Le ho proposto: dovremmo cantare, durante gli esercizi. Sei intonata, mi ha detto, hai studiato musica? Ho borbottato mah, tanto tempo fa. Hai una così bella voce, ha aggiunto, dovresti solo consentirti di farla salire. È una questione di libertà: devi darti il permesso. Ci sono rimasta. Per la prima volta ho intuito. Darmi il permesso. La ragazza olandese e la sua maglietta sono tornate con l’ordinazione. «Anche lei canta? Ha bella voce», mi ha sorriso. No, io no. Ma vorrei la sua maglietta. Mi ha scritto un appunto sul retro del conto, l’ho ordinata. L’aspetto.
CASAMATTA

CASAMATTA
Ricordati di respirare
Capire, dopo tanto tempo, che la vita non è apnea
di Concita De Gregorio, Illustrazione di Rebecca Clarke