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È CHIARO CHE SIAMO NOI
Quando il trucco del termometro funzionava
È CHIARO CHE SIAMO NOI

Quando il trucco del termometro funzionava

Bastavano pochi colpi sul palmo per trasformare un impersonale 36,3 in un solido 38, saltare la scuola restituiva felicità corsare

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Quando i termometri avevano ancora il mercurio, l’influenza non faceva paura e bastavano pochi colpi sul palmo per trasformare un impersonale 36,3 in un solido 38, saltare la scuola restituiva felicità corsare. Da ragazzo ero assalito da bronchiti feroci – curate, all’epoca, con Bactrim a sorsi – ma con la febbre avevo rapporti di pura cortesia. Non ci incontravamo mai e mi domandavo il perché visto che d’inverno la classe si svuotava dei tanti piccoli indiani caduti sul fronte del virus di turno diventando tra gennaio e febbraio una riserva per pochi eletti. «Quanti siamo oggi bambini?». «Nove su ventidue, signora maestra» e nelle pieghe della  risposta, nel mesto sguardo ai banchi semideserti, più dell’orgoglio di essere in piedi si intuiva il dolore di avere avuto fino a pochi minuti prima uno zaino sulle spalle e davanti agli occhi, mentre scorreva la litania dell’appello, un banco di formica verde in luogo delle coperte. Si percepiva la delusione di non star male. All’epoca non sapevamo cosa significasse paradosso, ma lo abbiamo scoperto molti decenni dopo quando dal nulla, per la prima volta, abbiamo sentito parlare di Covid. 
Ora con la febbre non si scherza più e anche i trucchi per conquistarla suonano grotteschi e anacronistici. La figlia di Ilaria, qualche giorno fa, ha avuto la febbre. Da ex somaro che in cuor suo si augura da sempre un’epidemia di orecchie da ciuco per tutti gli studenti potenzialmente virtuosi, ho provato a farmi bello con il trucco del termometro. «Se ti servisse o avessi troppi compiti» – le ho detto complice mentre sua madre copriva l’indignazione con la maschera della distrazione – «non devi far altro che questo». Ho agitato furiosamente il termometro, un termometro di aspetto in tutto e per tutto simile a quello dei miei tempi, ma non è successo niente. L’ho percosso e l’ho fatto litigare con la mano. E ancora nulla. «È inutile», ha detto qualcuno all’improvviso. «Hanno tolto il Mercurio da più di dieci anni», ha suggerito la voce per poi farsi più severa e puntualizzare: «sai com’è, era molto tossico». 
Mi sono sentito più sconfitto del solito, ho finto di aver solo scherzato e ho raggiunto un luogo appartato per leggere qualche pagina. Mi è caduto l’occhio su una raccolta di scritti di Giorgio Manganelli e ho aperto il libro a caso. Da qualche parte, l’uomo che teorizzava la necessità di trasformare la realtà in menzogna, ci stava ascoltando. L’articolo, scritto per La Stampa nel febbraio 1979, si intitolava Influenza. «Tra la fine di Dicembre e l’inizio di Gennaio», spiega, «Roma è stata invasa dall’influenza... un capriccio virale, una debolezza corporale, un abbandono al fascino della febbricola, una avventura con la malattia, un flirt, una momentanea caduta di virtù». Manganelli immagina una città felice di chiudersi in casa, rinunciare agli impegni sociali, disertare gli uffici, le scuole e i palazzi del potere. «Rapida la parola d’ordine si diffonde di quartiere in quartiere: non si deve uscire, specie se pioviggina, si annebbia, se l’aria è tiepida, se l’aria è fredda, se c’è vento, se non c’è vento… si disdicono gli appuntamenti, cadono le cene, molte cose si rinviano, i volti si fanno lontani, qualcuno scrive lettere». 
Una fotografia del presente che, una volta introiettati a fatica un paio d’anni di tragedia, sa come tramutarla in farsa con la pigrizia come bussola, la febbre come scusa e il segreto scopo – protetto da una giustificazione solenne e inoppugnabile – di non fare più niente. «Al mattino si scruta il cielo: certamente ci sarà, anche oggi, un motivo per non uscire... sedotti, irretiti, rinunciamo alle cose, alle persone, alle parole. Cominciamo a dubitare della nostra stessa esistenza e ci accorgiamo che l’influenza è una compagna esauriente. Non abbiamo bisogno di nulla». 
Chiudo il volume e intorno a me non c’è più nessuno. Sento risate, corse e affanni felici in giardino, oltre la porta. Le voci forse hanno la «raucedine di Don Carlos», ma per fortuna preferiscono la vita.