Quando una donna muore per mano di un uomo che conosceva – un marito, un amante uno che avrebbe voluto esserlo o lo era stato – pensiamo a lui come uno sconfitto. Un assassino, certo, ma anche uno sconfitto, incapace di adeguarsi a desideri, diritti, volontà di donne consapevoli. Donne diverse dalle loro madri e dalle loro nonne, donne “emancipate”. Un femminicida è un uomo sconfitto dalla Storia, pensiamo, che non sa più stare in un mondo che non riconosce. Un mondo più giusto, certo, ma non per lui, che si sente buttato via come una inutile carcassa. Anche se non la consideriamo un’attenuante, questa impotenza, questa sconfitta la mettiamo tra i moventi. Cioè attribuiamo parte della responsabilità, di questi omicidi all’emancipazione femminile. Lo facciamo nel tentativo di capire e di guarire, ma lo facciamo. Ed è un pensiero che resta lì, e può anche essere usato male.
Ma siamo sicuri che sia davvero così, che quegli uomini si sentano frustrati, sorpassati, sconfitti? Mi è capitato di pensarlo in occasione di questa nuova ondata di omicidi, e in particolare quello della giovane avvocata uccisa a Roma davanti al ristorante dove aveva appena cenato con l’uomo che sarebbe diventato il suo assassino. Ci saranno indagini, ci sono già testimonianze contraddittorie e avvocati e giornalisti assatanati da una parte e dall’altra. Non conosciamo, e forse non conosceremo mai, la dinamica esatta dell’omicidio. Ma una cosa la sappiamo, ed è inconfutabile: i due avevano litigato selvaggiamente mentre erano seduti a quel tavolo e lei si era addirittura rifugiata nel bagno chiudendosi a chiave. Un uomo e una donna litigano a cena, così tanto che lei a un certo punto si alza e si va a chiudere in bagno, mentre lui la insegue. Che cosa avremmo fatto noi, seduti ai tavoli vicini, che cosa avrei fatto io? Non lo so cosa passa nella testa di un uomo che mette le mani al collo della donna con cui ha dormito mille notti, la madre dei suoi figli, e stringe le mani fino a uccidere il corpo con cui aveva fatto l’amore o sognava di farlo. Non lo so io, e non lo sa nessun altro tranne quell’uomo. Può darsi che le sue mani siano guidate dall’angoscia per la crisi del maschio, che si senta impotente, spodestato del suo ruolo. Ma noi, noi che invece pensiamo che il femminismo e le conquiste siano state la migliore delle rivoluzioni possibili, noi, uomini e donne, che non abbiamo dubbi sul fatto che la parità dei diritti ci consentirà di vivere in una società migliore, noi, perché siamo rimasti seduti? A meno che quel ristorante non fosse vuoto, se ci fossimo alzati tutti, se avessimo usato i nostri corpi per difendere quella donna e cacciare a pedate quell’uomo, avremmo impedito che quell’omicidio avvenisse. Senza alcun dubbio. Ma non l’abbiamo fatto, perché abbiamo avuto paura, perché non abbiamo capito quanto grave fosse quello che stava avvenendo, perché ci facciamo gli affari nostri. E se fosse invece questa la questione, se il femminicidio fosse sì un delitto riconducibile, anche, alle mutate condizioni sociali, ma queste condizioni fossero la nostra nuova indifferenza? Vi ricordate la scena iniziale de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia? In un piccolo paese un uomo viene ucciso davanti a decine di persone assiepate sul pullman in partenza per Palermo. Quando arrivano i carabinieri, i passeggeri sono tutti scomparsi e l’autista e il bigliettaio, interrogati, dichiarano di non ricordare niente. Ma era vuoto ‘sto pullman, chiedono spazientiti i carabinieri. Forse, rispondono. Era il 1947, Sciascia raccontava la mafia e rendeva proverbiale l’omertà. E se da allora quella che Sciascia chiama “la linea della palma” fosse salita così tanto in Italia da comprendere ormai tutti noi? Se fosse proprio questa indifferenza, questa indolenza, questa mafiosa accidia a costituire il terreno di coltura della violenza degli uomini verso le donne? Impicciamoci, facciamo rumore, alziamoci in piedi tutti insieme quando vediamo una donna in pericolo. Poi, dopo, eventualmente, pensiamo alla Storia.
AVRÒ CURA DI TE

AVRÒ CURA DI TE
La linea della palma. Perché dovremmo intrometterci se vediamo una donna in pericolo
Un disperato bisogno di fare rumore, di combattere e sconfiggere l'accidia mafiosa che ci suggerisce di farci i fatti nostri
di Elena Stancanelli, Illustrazione di Rebecca Clarke