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È CHIARO CHE SIAMO NOI
Nei nostri sogni nevica. Quella neve di quasi 40 anni fa
È CHIARO CHE SIAMO NOI

Nei nostri sogni nevica. Quella neve di quasi 40 anni fa

Trentotto anni dopo la grande nevicata romana, la consapevolezza che non accadrà più non impedisce, anno dopo anno, di coltivare comunque la speranza

2 minuti di lettura

Sordo ai miei calcoli sul progressivo allungamento delle giornate, un amico decide di spegnere il mio entusiasmo dicendo soltanto «è inverno». Sostiene che sia inutile agitarsi e che per quanto mi ostini ad alzare gli occhi al cielo all’ora del tramonto, consolandomi per aver guadagnato secondi di luce di cui posso sentire il peso alla stregua di una moneta nella tasca, su quel tesoro potrò mettere le mani solo a fine marzo: «come accade» – sottolinea con apprezzabile umorismo – «da molto prima che io e te facessimo il nostro breve passaggio su questa terra». Riscaldamento globale o meno, in effetti, fa molto freddo e la città vista dall’alto pare un distretto industriale, un orizzonte di fumi bianchi che si levano dai comignoli mentre al piano terra, per la strada, una lunga teoria di sciarpe, guanti, cappelli e – per i più fantasiosi – persino colbacchi e passamontagna, orna il paesaggio urbano dei romani improvvisamente strappati dalla loro estate senza soluzione di continuità. «Durerà poco», si sussurrano per farsi forza uomini e donne nei bar, mentre ai tavolini occhi bassi di gente preoccupata compulsano i telefoni per scoprire quanti pesi davvero quel poco. I siti specializzati sul meteo – una delle ossessioni contemporanee al pari della cucina – urlano titoli che prefigurano la fine del mondo. I cicloni che nella bella stagione hanno nomi di imperatori incendiari ora assumono le vesti di divinità germaniche aduse a un armamentario fitto di tuoni, fulmini e tempeste. Le autostrade registrano code per nebbia e ghiaccio, i fotografi sorprendono i frati a giocare circondati da distese bianchissime che contrastano con le vesti scure dell’abito davanti alla Basilica di Assisi e, come è ovvio, nevica un po’ ovunque. Ovunque, tranne che a Roma. 
L’ultima volta – mi appello alla memoria del mio telefono – è accaduto cinque anni fa. Fu uno spruzzo breve e generoso che per qualche ora bloccò tutto come si augurano solo i bambini mai cresciuti e tutti quelli che per età sognano parchi imbiancati, scuole chiuse e consolanti deviazioni dalla routine. Quando si bloccò tutto avevo nove anni. Il cinque gennaio 1985 andai a dormire senz’altra aspettativa che ricevere un pezzo di carbone nella calza della befana e mi risvegliai in una città stravolta. Dalla finestra, il panorama somigliava a una vera Epifania. A un segno divino. A un miracolo. Ignorai i dolci – già non credevamo più da tempo alle scope volanti, a Santa Claus e a tutto il baraccone che ci era stato ammannito per anni – e mi abbandonai alla novità. «La neve, la neve», sentivo gridare in casa e in pochi secondi, con le prime scarpe trovate ai piedi del letto, ero già per strada. Sopra le nostre teste la luce era innaturale. Un muro tra il viola e il nero prometteva di far durare il prodigio a lungo mentre il silenzio di un giorno di festa era interrotto dalle voci dei vicini che ripetevano la loro preghiera laica nell’avamposto già di per sé forse più scettico del pianeta: «Nun ce se crede, nun è possibile». Nevicò per una settimana, saltò ogni appuntamento, ogni impegno, ogni parametro. Trentotto anni dopo, so con certezza che non vedrò mai più una cosa del genere. Ma la consapevolezza non mi impedisce, a ogni giro di calendario, di coltivare comunque la speranza. “Anche nei nostri sogni nevica”, mi avverte Orhan Pamuk, “ma una sola volta nella vita”. Lo so, ma non mi arrendo. 
Non c’è niente che mi affascini più della linea che separa la ragione dall’irragionevolezza. Continuo quindi a bramare che una notte d’inverno, “senza temere il vento e la vertigine” si manifesti la stessa magia di quel 6 gennaio così lontano e così vicino. Per tornare indietro? Per andare avanti? Per non muoversi più? «Non sarebbe bello se ci svegliassimo e tutt’intorno ci fosse solo neve a perdita d’occhio?», domando a Ilaria che non ama il freddo, ma non nega il fascino dell’improbabilità. Mi cita Rimbaud: «Nient’altro che del bianco a cui badare». Poi ci ripensa: «A patto che resti bianco e non si sporchi».