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Tacendo e respirando
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Tacendo e respirando

Quando risuonava la voce di Bernardo

2 minuti di lettura

Se chiudo gli occhi, ricordo soprattutto la voce. La prima volta, simile a una melodia, l’avevo ascoltata da bambino. Ero su un letto a castello, in alto, conquistato come sempre a prezzo di lotte e bassezze con il mio fratellastro e nel tentativo di prendere sonno, oltre la porta, avevo sentito quel timbro. Si era fatto largo tra le voci inutili e – una volta preso il suo spazio – costretto gli altri, me compreso, all’abdicazione. 
«Chi parlava con quel tono e con quella erre ieri sera?». Lo chiesi subito agli adulti, con gli occhi cisposi, non appena sveglio. E non ci fu bisogno di dire altro. Vero, aperto, finto, strano, chiuso, anarchico, verdiano. Suadente e perentorio. «Era Bernardo», risposero. «Hai mai visto un suo film?». Avrei avuto tempo, non prima di capire che radici e scoperte, Emilia e orienti magici, certose e templi: le storie da srotolare come atlanti di cui Bertolucci conosceva oasi e deserti, erano la sua opera migliore. Aveva trovato ristoro nella tenda del set e superato le dune con il solo bagaglio della curiosità. Aveva sempre avuto voglia di esplorare e quando la mappa, nell’ultima tappa del percorso, gli aveva restituito una fuga da fermo, aveva viaggiato con la testa e con le idee come all’epoca in cui il vento non entrava soltanto dalle finestre. Al pari dei sognatori che aveva descritto a suo tempo era come se stesse andando per mare lasciando il mondo lontano, dietro di lui. Si trattava di non conformarsi: a un’idea, a un destino, al tramonto. 
Si trattava di vivere e filmare ancora. Si trattava d’amore. In quanto a me, lo avrei voluto come zio: tutto ventagli e silenzi, sospiri e frasi rotonde, gesti nell’aria e ironia. Mi era capitato di intervistarlo e di studiare, di presentarmi nella casa di Via della Lungara con un bagaglio di domande eccessivo, da scolaretto pedante e di dimenticarlo subito per farmi guidare dal solo che avesse il volante, nei ricordi e nelle scene. Mi ricordo perfettamente dov’ero quando mi mandò a fare in culo, al telefono, invitandomi a non chiedergli un ulteriore colloquio, «non ne ho nessuna voglia quindi per qualche mese non chiamarmi più», mentre ho dimenticato in quale angolo della città fossi mentre, molto più tardi, mi apparve il suo nome sul display per darmi appuntamento di lì a qualche giorno. 
A Trastevere arrivai che il pomeriggio estivo aveva già ruggito. Il sole gli illuminava una metà del volto. Dell’altra, in ombra, potevo solo indovinare l’espressione. Si accese una canna: professionale, non me la offrì. Chiuse gli scuri. Accese il proiettore e sulla parete di casa passarono i titoli di testa di Ultimo Tango a Parigi. Sul Pont Bir-Hakeim ero stato in pellegrinaggio, ma tacqui e feci bene. Poi tornò la luce. Parlammo a lungo. Volle rileggere tutto. Lo sapevo laico. Non cambiò una riga. Bernardo era nato a marzo. Quando le giornate si allungano e puoi stirare la memoria del freddo passato per consolarti: “Come pesa l’inverno su questi rami/ come pesano gli anni sulle spalle che ami”.  
Con Ilaria ho visto tanti film, ma a lei che attacca sugli specchi le Polaroid non ho mai proposto – chissà perché – di mostrare riflessi e ombre di Storaro. Ora c’è una fondazione, a Parma, che porta il nome di Bertolucci. Una nipote appassionata, Valentina, che se ne occupa a tempo pieno. E un premio per i giovani registi che si chiamerà Dreamers. A questo serve la vita. A immaginare un viaggio che verrà. A mettere in scena uno spettacolo d’arte varia. A dire: «Ti va di partire, Ilaria?». A saperlo dire a bassa voce. 
Bertolucci conosceva il segreto per proteggersi senza armi. Tacere e respirare. Tacere e respirare con gli occhi bene aperti. «Tenere tutto chiuso dentro una stanza, l’amore, il dolore, il piacere. Senza ferire nessuno, senza far sapere nulla di sé e senza conoscere nulla dell’altro. Due persone in stato di grazia. Solo questo».