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Invecchiare? C'è di peggio

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Ancora poche curve e mio padre compirà ottantadue anni. Suo padre è morto quando ne aveva quaranta e da allora, che ricordi, non se ne è più parlato. La morte lo mette a disagio. Evita i funerali e non prevede il suo. Mio padre è stato sempre convinto di essere immortale. Ha bevuto e ha fumato. Continua a farlo. Mio padre ha saputo essere gentiluomo come nessuno. Mio padre ha saputo essere maleducato come nessuno. Se glielo facessi notare alzerebbe le spalle e direbbe: «Avete paura di tutto e chiedete sempre inutilmente scusa». Se la realtà non gli piace, mio padre preferisce negarla. Entrò in macchina con la sua Gauloises che mia figlia era ancora molto piccola. Gli chiesi di buttare la sigaretta. Si lamentò e in un francese tutto suo disse soltanto: che palle, come siete écologique. Poi abbassò il finestrino e continuò ad aspirare fino al mozzicone. Un celebrato regista tedesco lo chiamava Assoluto e lui, felice del soprannome, non solo non sospettava ironia, ma considerava l’appellativo doveroso. 
Mio padre ha amato molto ed è stato molto amato. Ma è frangibile, come tutti e venti giorni fa, effettivamente, si è infranto. Ero in macchina con Ilaria, stavo guidando – teniamo entrambi al futuro e lei, che ha tanti talenti, è saggio stia lontano dal volante – e il telefono ha annunciato disgrazie. Un messaggio laconico di mia sorella raccontava già il secondo capitolo della storia: “Papà è caduto per le scale, non riesce ad alzarsi, stiamo chiamando un’ambulanza”. Tra tante ipotesi intangibili per una volta ho puntato su quella giusta e chissà perché ho pensato subito al femore. Se l’era rotto già nel 1981. Passò molti mesi a letto che mi servirono per conoscere le canzoni di Paolo Conte, per capire, da allora e per tutta la vita, che con i russatori da competizione è impossibile dormire e che molto peggio del femore, tra le fratture, non può capitare. La riabilitazione fu lunghissima e dolorosa. Ero bambino, ma non ho dimenticato quasi niente. Con quella memoria tragica mi sono incupito. Ilaria lo ha capito e astuta ha provato a riprendere in mano la sua auto.  «Guido io?», «No, ma se mi accompagni mi fai felice». Abbiamo firmato un paio di fogli, fatto un tampone e siamo saliti al secondo piano della struttura. Camici bianchi, fogli di servizio, un’aria sospesa tra epifania e tragedia. I medici sono stati molto chiari fin dal principio: «Se non fa esercizio da subito, dal primo decorso operatorio, suo padre rischia di non alzarsi più». Mi sono preparato a una battaglia dialettica – mio padre è anche molto pigro, forse questo non l’avevo detto – ed è stato lì, in quel momento, che ho realizzato di conoscerlo davvero poco. Piegato dal pregiudizio l’avevo presa larga e lui ha accorciato i tempi: «Resterò ricoverato fino a quando ci sarà bisogno che lo sia davvero», ha detto. 
La paura fa miracoli ho pensato. Invece dell’uomo irragionevole che ero certo volesse tornare a casa dopo 72 ore, ho trovato un ragazzino modello. Un topo d’ospedale. Uno di quelli che pur di non farsi dimettere sarebbe pronto a rompersi anche l’altra gamba perché conosce il valore della posta in gioco. Dopo pochi giorni era padrone del reparto. Cercava complicità negli infermieri. Divorava i pasti, così simili ai cestini del cinema che per professione aveva visto più o meno tutti uguali in ogni angolo del mondo, come se si trovasse davanti alle creazioni di uno chef superbo al Grand Hotel. Provava a corrompere qualcuno perché gli venisse aperta la finestra e potesse liberare il suo grande desiderio di accenderne finalmente una. 
Giorno dopo giorno, la vita familiare si è trasferita nella stanza 511. Il quotidiano sono diventate le visite a tema. Chi porta un film, chi un libro, chi un giornale, chi un dolce. Mia madre si ostina a infliggergli Puškin e lui, che è prigioniero, non si ribella neanche più. “E in silenzio passavo i giorni, recluso nel vuoto grigiore”, legge ad alta voce. Poi ridono entrambi. C’è di peggio di invecchiare.