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Prima che sia giorno
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Prima che sia giorno

Se il destino ti mette di fronte a un déjà-vu

2 minuti di lettura

Non ho mai avuto alcun problema ad addormentarmi all’istante. Mi riusciva facilmente da bambino, senza alcuna difficoltà in quella parentesi irripetibile che sono i vent’anni e mi accade anche adesso nonostante l’avanzare dell’età mi incupisca e mi domandi spesso perché, tra un pelapatate e una friggitrice ad aria, nessuno abbia escogitato un trucco per fermare il tempo. Per quanta caffeina possa aver assunto o per quanti rumori esterni si concentrino per farmi fallire, comunque io procedo. E dormo. Almeno otto ore, pena una leggera nebbia che mi accompagna con fatica per il resto del giorno. Il sonno arriva con uno sbadiglio, il contagio si fa strada e chiama a raccolta i fratelli, chiudo quindi gli occhi e un secondo dopo sono già altrove. Pensavo di essere il campione indiscusso di questa specialità e compiangevo, senza riuscire a dissimulare lo sconcerto e il dispiacere, tutti quelli – non sono pochi – che invece di notte soffrono, incontrano lupi e ore agitate e, quando riposano per tre ore, si sentono già molto fortunati. Ho un amico che si sveglia regolarmente alle quattro di mattina, un altro che conta le pecore fino a smarrire i numeri, un altro ancora che le ha provate tutte e adesso, sconfitto, lasciate nell’angolo meditazioni e valeriana, prova con l’ausilio di medicine meno gentili. Pensavo di essere l’interprete da premio, dicevo, del sonno istantaneo fino a quando non ho incontrato Ilaria. Lei mette la testa sul cuscino che non sono ancora le undici di sera e trenta secondi dopo – li ho cronometrati – dorme profondamente. Le cambia il respiro, ha un lieve fremito nel corpo e puoi star certo che qualsiasi cosa accada, nulla la disturberà. Se ti distrai non riesci neanche a dirle ciao anche se al risveglio, questo ci accomuna, non sempre riusciamo a ricostruire i percorsi dei sogni, i viaggi da fermo, le cose belle o brutte che ci vengono a far visita di notte. Quando è l’alba, lei, abituata ai ritmi della prole, si tira in piedi fresca come una rosa. Fuori si fa giorno e la città tace. Di lì a un’ora la scuola aprirà i propri cancelli e in sessanta minuti ogni cosa, dalla colazione agli zaini, deve essere pronta in un percorso marziale che non prevede indecisioni. 
Non mi ricordavo più cosa significasse – eppure ci ero passato, da figlio e da padre – e il destino pochi giorni fa mi ha messo di fronte a un déjà-vu. Mia figlia si è trasferita per qualche giorno da me ed è stato come fare un salto indietro all’epoca in cui la accompagnavo al cancello delle elementari con la sottile ansia di vederla sparire con la sua sacca sulle spalle in mezzo ai suoi simili fino a essere inghiottita da un portone. «Ce la caveremo benissimo», ho annunciato con voce squillante che tradiva la certezza del risultato. Poi ho stipato il frigorifero di ogni genere adatto alla colazione, messo la sveglia alle sei e dato vita alla settimana del padre d’oro che Ilaria si stupiva avessi dimenticato: «Ma come hai fatto in tutti questi anni?». Già, come avevo fatto? Aver vissuto a Milano per un quinquennio aveva contribuito all’oblio, ma il resto lo aveva fatto la crescita. Il momento in cui tuo figlio non solo non ha più bisogno di essere accompagnato, non solo rifiuta le smancerie e i nomignoli, ma alla sola idea di essere scortato a scuola si ribella. A Roma però abito in un luogo in cui non ci sono, o quasi, mezzi pubblici e quindi, per costrizione, sono tornato alla sua infanzia. Ad abbrustolire pani con i minuti contati ci siamo molto divertiti, a inseguire il cronometro un po’ meno. 
L’altro giorno, l’ultimo di una settimana anomala, ha chiesto indulgenza: «Papà, posso entrare alla seconda ora?». «Certo», le ho risposto subito, pronto a suggerirle altre più gravi evasioni lucignolesche. Lei, più morale di me, ha aggiunto: «Non sei mai stato un grande educatore». Ho annuito io. Ha annuito lei: «Meno male», ha concesso. «Per essere severi serve credibilità». Ci ho pensato. E ho preferito tacere.