Fashion Summit 2018: la moda si confronta con la sostenibilità
di Federico Biserni
A Copenaghen la più grande riunione di professionisti del settore moda per parlare di sostenibilità ambientale e sociale arriva alla sesta edizione. Un appuntamento per analizzare lo stato dell’arte e presentare “Pulse of the Fashion Industry 2018”, il documento che fa chiarezza su cause e soluzioni del problema
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La Principessa Mary di Danimarca parla sul palco del Copenhagen Fashion Summit 2018
Il futuro della moda si scrive a Copenaghen, a maggio, nella stagione in cui la città si risveglia dopo il buio dei mesi invernali. È qui che si è svolta la sesta edizione del Copenhagen Fashion Summit 2018, il più grande evento annuale di moda sulla sostenibilità ambientale e sociale. Organizzato da Global Fashion Agenda, ha coinvolto 1300 protagonisti del settore abbigliamento, appartenenti a tutti i segmenti della catena del valore, provenienti da oltre 50 paesi del mondo (con un incremento di aziende asiatiche del 60% rispetto all’anno precedente). Il maggio danese trova una corrispondenza perfetta nella primavera dell’impegno del sistema moda che si riunisce nella capitale danese per discutere dell’accessorio più difficile da portare: il macigno, veramente poco glamour, dell’impatto ambientale e sociale.
“Abbiamo il dovere di partecipare a questa conversazione e dobbiamo essere ritenuti responsabili”. A dirlo è Stella McCartney, stilista, pioniera dell’attenzione al tema della sostenibilità e da inizio 2018, dopo aver acquistato la quota appartenente al colosso Kering, anche unica proprietaria dell’omonimo marchio cruelty-free fondato nel 2001. Insieme a lei sul palco altri 74 relatori tra dirigenti d’azienda, giornalisti di settore e la Principessa Mary di Danimarca, oltre ai due ospiti dell’evento, Amber Valletta e Tim Banks, editor-at-large di The Business of Fashion, per discutere di quanto e di come si possa cambiare.
Perché di margine ce n’è tanto, come illustrato dal “Pulse of the Fashion Industry 2018”, il report redatto con la collaborazione di Boston Consulting Group sullo stato dell’arte del settore abbigliamento. Il documento prende in considerazione tutti i settori della value-chain e li analizza secondo il “Pulse Score”, un parametro per misurare e tracciare la sostenibilità delle aziende coinvolte basato sull’autovalutazione.
In una scala da 1 a 100, dove 100 è il livello massimo di sostenibilità (del tutto aspirazionale e per progetto non raggiungibile), la media del 2018 è di 38 con un incremento di 6 punti rispetto al 2017.
Segno che la strada intrapresa è quella giusta, ma che resta un ampio margine di miglioramento. Nei prossimi mesi su D.it dedicheremo un articolo a ognuno degli otto segmenti della catena di valore (progettazione, materie prime, produzione, manifattura, trasporto, commercio, utilizzo, fine vita) analizzando i punti di criticità e gli esempi virtuosi in fatto di sostenibilità ambientale e sociale. Perché cambiare si può, anzi si deve.