
Materiali naturali
Può sembrare sorprendente, ma i materiali naturali come pelle, lana, cotone, seta sono quelli che hanno un maggiore impatto ambientale considerando l’intero ciclo di vita: secondo il report ‘Pulse of the fashion industry 2018’ di Global Fashion Agenda e Boston Consulting Group il materiale meno sostenibile è la pelle bovina seguita da seta, cotone e rafia. La ragione è legata prevalentemente all’utilizzo di acqua, pesticidi ed erbicidi necessari alla loro produzione, in particolar modo per quanto riguarda il cotone, la seconda fibra più utilizzata in campo tessile dopo il poliestere.Vuol dire forse che bisogna rifuggire dalle etichette che recitano 100% cotone? Non esattamente. Una prima alternativa viene dal cotone biologico certificato in grado di ridurre del 75% l’impatto ambientale del cotone tradizionale prevalentemente grazie all'abbattimento o eliminazione dell’uso di pesticidi ed erbicidi per la coltivazione. Sono ormai tantissime le multinazionali della moda che hanno scelto di usare cotone biologico, tra cui Inditex e H&M, anche se, come sottolinea Greenpeace nel rapporto ‘Fashion at the crossroads’, esistono diverse certificazioni più o meno stringenti (ad esempio sull’utilizzo di semi OGM oppure no) che influiscono sull’effettiva sostenibilità delle diverse coltivazioni.
Un’altra risposta al problema arriva da materiali a base vegetale alternativi al cotone ormai sempre più utilizzati dalle aziende di moda attente al tema ambientale. Ce ne sono un’infinità e si passa dalle fibre semplici come lino, canapa e ortica la cui coltivazione richiede un minor uso di acqua, pesticidi ed erbicidi, a derivati vegetali più complessi. Il più diffuso è il Lyocell prodotto a partire dalla cellulosa di legno e bambù: se questi provengono da foreste certificate, come nel caso della collaborazione tra Stella McCartney e la ONG Canopy, si tratta di un’ottima alternativa a basso impatto ambientale. Ma ci sono anche il nylon 100% ’’bio-based’’ derivato dal glucosio, il Piñatex della Ananas Anam fatto con le fibre delle foglie dell’ananas, le simil-pelli derivate dai funghi lignei o la Nullarbor fibre dell’australiana Nanollose ovvero il primo rayon ottenuto grazie a microbi che convertono in cellulosa batterica e successivamente in rayon, appunto, i rifiuti organici derivati dalla produzione di vino, birra, e cibo liquido.

Photo courtesy of Piñatex®
Materiali sintetici
Il 60% degli abiti è fatto di poliestere e se è vero che per la sua fabbricazione viene impiegata meno acqua e che complessivamente ha un minor impatto ambientale rispetto alle fibre naturali, è altrettanto vero che produrre poliestere genera il triplo delle emissioni di CO2 del cotone. Per rendere eco sostenibili anche i materiali sintetici la via più seguita è quella di produrli riciclando rifiuti plastici. Un esempio su tutti: le scarpe Adidas UltraBOOST Uncaged Parley capaci di vendere un milione di pezzi in un anno e fabbricate a partire dai rifiuti in plastica raccolti nell’Oceano Indiano. Hanno conquistato il mercato e hanno aiutato a ripulire qualche spiaggia delle Maldive.Il successo delle sneakers prodotte con i rifiuti degli oceani: un milione di pezzi venduti in meno di un anno
"Ne venderemo un milione". Così è stato. Il record di vendita delle sneakers prodotte da Adidas in collaborazione con l'associazione ambientalista Parley for the Oceans è stato battuto in meno di un anno; a comunicarlo è il CEO del brand, il danese Kasper Rorsted, in un'intervista alla CNBC.
Le Adidas Parley sono ottenute al 95% da plastica riciclata raccolta vicino alle Maldive, spazzatura dei nostri oceani, e per il 5% da altri materiali riciclati. Per la tomaia di un paio di sneakers sono impiegate circa 11 bottiglie di plastica. Nel 2017 le UltraBOOST Uncaged Parley sono state messe in produzione in tiratura limitata (7000 pezzi, prezzo di vendita 220 dollari) sul mercato americano ma l'intenzione dell'azienda era sperimentare un processo da realizzare su larga scala: l'eliminazione della plastica vergine dal processo di produzione e distribuzione. Dopo questo successo di vendita, il brand potrebbe decidere di aggiungere nuovi modelli ai tre UltraBOOST Uncaged Parley esistenti, e incrementarne la produzione.
Nel giugno dello scorso anno, in occasione della Giornata mondiale degli Oceani è stata lanciata una nuova colorazione per i tre modelli da running UltraBOOST, UltraBOOST X e UltraBOOST Uncaged, con livrea bianca; la collezione lanciata a maggio si ispirava al tono blu degli oceani, mentre il bianco è stato scelto per far luce sulla questione dello sbiancamento dei coralli e per rappresentare simbolicamente la bandiera bianca che l’umanità dovrebbe alzare in segno di pace, per porre fine all’inquinamento degli oceani.
Dunque problema risolto? Non proprio. Se da un lato è importante incentivare e promuovere iniziative di questo genere perché rappresentano comunque un passo avanti verso la piena sostenibilità (tema al quale abbiamo dedicato un dossier), dall’altro non si possono trascurare alcuni aspetti negativi o non del tutto positivi. Per prima cosa si stima che il poliestere riciclato abbia un costo per le aziende superiore del 10% rispetto a quello vergine, caratteristica che lo rende ancora poco attraente su larga scala. In secondo luogo la plastica che viene riciclata per produrlo non deriva dagli scarti dell’industria tessile, ma si tratta prevalentemente di rifiuti, come le bottiglie, dell’industria alimentare. Ciò significa da una parte de-responsabilizzare il settore food nella ricerca di ecosostenibilità e dall'altra non centrare l’obiettivo della circular economy e non riuscire mai a chiudere il cerchio utilizzando l’abito arrivato a fine vita per produrne uno nuovo.
Infine il problema riguarda le microplastiche che rappresentano il fattore di inquinamento più subdolo e più preoccupante dei nostri mari: per il 90% derivano da fibre sintetiche tessili. Questo aspetto rimane invariato sia usando materiali sintetici vergini che riciclati.
“Questo non è il tempo di aspettare e osservare”
Tra le tante aziende che stanno cercando di rendere più sostenibile la propria supply chain ce n’è una in particolare che dal momento stesso della sua nascita ha fatto dell’ecologia un valore fondante: Patagonia, brand creato negli anni '70 da Yvon Chouinard e specializzato in abbigliamento tecnico outdoor. “La selezione delle materie prime è la componente principale dell’impatto ambientale di qualsiasi azienda di abbigliamento. Per questo è incredibilmente importante per noi trovare i materiali che danneggino il meno possibile l’ambiente”, ci racconta Matt Dwyer, Senior Director Materials Innovation di Patagonia. Che aggiunge: “Questo vuol dire che siamo alla continua ricerca di modi per migliorare le materie prime che usiamo e siamo sempre a caccia di materiali come il cotone biologico, la canapa o le fibre sintetiche riciclate che limitino i danni all’ambiente”.E in effetti basta dare un’occhiata alla lista di alternative prese in considerazione da Patagonia per farsi un’idea di quanto sia concreto l’impegno green: non solo cotone biologico, lana o poliestere riciclati e certificazioni Fair Trade (commercio equo e solidale), ma anche Gore-Tex riciclato, tinture a bassissima emissione di CO2 e Yulex, un neoprene a base vegetale con il quale vengono fabbricate le mute isolanti del marchio.

Photo courtesy: Patagonia