Pordenone, il prof scrittore fa “imbrattare” il paese di poesie
Luci spente, lettura dei classici, appunti sui foglietti E poi via, all’aperto, a lasciarli su auto, vetrine e bancomat

ENRICO GALIANO. Primo: la città in cui vivono questi ragazzi, beh, non è una bella città. Magari ci siete passati, per Pravisdomini, forse vi siete fatti un’idea.
Sì, certo, ci sono degli scorci bellissimi nei dintorni, come il borgo medievale a Panigai, o dei momenti in cui la campagna si apre e il giallo dei campi di grano ti accarezza lo sguardo e fa bere un po’ di dolcezza ai tuoi occhi: ma la città, lei, non è una bella città.
È una di quelle in cui ormai tutti si sono abituati a vedere quelle certe facce, quelle lì, degli uomini tristi fuori dai bar, e quei negozi abbandonati, e quegli intonaci con le crepe. Con quella strada, poi, che la taglia esattamente a metà, e dove le macchine corrono veloci invece che rallentare, come se volessero scappare, correre via, non fermarcisi troppo.
Secondo: la poesia, questi ragazzi, solo a sentirla nominare è facile gli venga su la colazione: per loro significa, quasi sempre, solo “cose da mandare a memoria” e ore e ore su una pagina invece che fuori a giocare. Ogni volta che in classe inizio l’argomento sono subito sudori freddi (per me) e facce da funerale (per loro).
Così oggi ho preso e gli ho detto: ragazzi, oggi facciamo i poeteppisti.
Sguardi dubbiosi. Perplessità che si tagliava con il coltello. Le ragazze “brave” della classe già pronte a dirmi con gli occhi «No prof, io non sono una teppista!». I ragazzi, invece, che non vedevano l’ora.
«Andiamo in giro a suonare i campanelli e scappare? Che figata!», fa uno.
Non proprio. Funziona così: spengo la luce in classe (un po’ di atmosfera è essenziale: la poesia non è qualcosa che ha bisogno di altra luce, è già lei luce), poi mi metto a leggere dei versi. Roba tosta: Emily Dickinson, Pasolini, Cardarelli, Nazim Hikmet, Sandro Penna. E altri.
Quando loro sentono un verso che gli piace, che li ispira, che fa vibrare qualcosa là dentro le loro piccole pance, se lo appuntano su un foglio.
Poi, quando ho finito di leggere, scelgono fra tanti qual è il “loro” verso, quello che più di tutti parla di loro, o a loro, o per loro. E lo scrivono in pennarello, bello grande, su un foglio. Con l’hashtag ?#poeteppisti.
«E adesso prof, che si fa?», mi chiede uno.
«Eh, adesso usciamo dalla scuola – faccio io – Andiamo in strada. Appiccichiamo i fogli con i versi ai parabrezza delle macchine, sulle vetrine dei negozi, sui bancomat, sui muri delle case».
L’ora è quella giusta: ho fatto a cambio con una collega per poterli avere dalle 13 alle 14, cioè quando i negozi sono tutti chiusi, così poi il foglio quelli se lo ritrovano al rientro dopo la pausa, e si chiedono «Embè? Che è ‘sta roba adesso?».
Dietro, poi, ho fatto scrivere, a tutti: «Non buttare via questo foglio: portatelo a casa, attaccalo al frigo, o dove vuoi tu, e leggilo ogni mattina!». Perché lo scopo è proprio quello: che un po’ della poesia che ha ispirato questi ragazzi, entri nelle case di chi vive in questa città, parli anche a loro. Sia messaggio e bottiglia.
Insomma, facciamo i teppisti. Imbrattiamo questa città. Le buttiamo addosso un po’ di colore, ma senza sporcarla. Questa città la imbrattiamo di parole e di bellezza.
«Perché i poeti – ho detto, prima di uscire “in missione” - sono un po’ i teppisti della parola. Prendono e ne inventano di nuove, giocano con quelle vecchie, le buttano in strada, le trasformano, pigliano a calci la grammatica quando serve, spostano gli accenti, rubano le virgole. Vanno anche in giro a fare un sacco di versi, i poeti!».
Così noi, oggi, a Pravisdomini, provincia di Pordenone, abbiamo fatto i #poeteppisti.
Ah, e naturalmente, alla fine, dopo l’ultima poesia, uno ha suonato un campanello ed è scappato. E tutti hanno iniziato a correre.
E io, a 38 anni suonati, a correre in mezzo a loro.
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