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Cure anticancro, salute del cuore a rischio per un paziente su tre

E' la stima di un problema ancora difficile da definire e quantificare con precisione. Ne abbiamo parlato con Pierfranco Conte, responsabile dell’oncologia all’Istituto Oncologico Veneto

3 minuti di lettura
Un paziente oncologico su tre riporta conseguenze sulla salute del cuore in seguito a chemioterapia. Per alcuni survivor il rischio di decesso dovuto a patologie cardiache sarebbe addirittura superiore al rischio di recidiva. Sono stime, non dati assoluti, o definitivi. Tuttavia sono numeri alti. Se volessimo vedere il bicchiere mezzo pieno, dovremmo dire che la cardiotossicità in oncologia, cioè la tossicità per il sistema cardiocircolatorio delle cure anticancro, è uno dei fenomeni emergenti della sopravvivenza alla malattia, che è sensibilmente migliorata nei decenni, e paradossalmente è chiaro che più la vita si allunga più emergono danni a lungo termine. Tuttavia, la sensazione è che degli effetti cardiotossici dei chemioterapici non si parli tanto, nonostante sembri un fenomeno diffuso.

Difficile quantificare. Di cardiotossicità abbiamo parlato con Pierfranco Conte, direttore dell’Oncologia medica 2 dell’Istituto Oncologico Veneto a Padova, e docente di Oncologia nell’ateneo della stessa città. “La cardiotossicità  è un fenomeno complesso da quantificare – dice l’esperto – e per vari motivi. Il primo, perché  molti farmaci potenzialmente cardiotossici si utilizzano da relativamente pochi anni, di conseguenza gli effetti a lungo termine di queste molecole non sono noti. Il secondo, perché per molti pazienti oncologici fino ad anni recenti non c’era un follow up a lungo termine, perché le prognosi erano severe. Poi, perché il  problema della tossicità per il cuore dei farmaci oncologici è stato sottovalutato per tanto tempo, se si escludono le molecole  pesantemente cardiotossiche come le antracicline. Infine, perché a tutt’oggi la reale incidenza di eventi cardiotossici è sottostimata in quanto basata soprattutto su studi clinici che includono pazienti mediamente più giovani dei pazienti del mondo reale, che sono in genere più in là con gli anni e con comorbidità, cioè affetti da altre patologie. Detto ciò, la stima secondo la quale circa un terzo dei pazienti trattati con terapie anticancro può avere problemi di cardiotossicità è accettabilmente realistica”.

Il tipo di danno dipende dal tipo di farmaco. Dagli infarti alle miocarditi, all’insufficienza cardiaca, alle alterazioni del ritmo, all’ipertensione. I danni sul cuore potenzialmente associati ai chemioterapici sono diversi. E il tipo di danno dipende dal tipo di farmaci. “I più cardiotossici – riprende Conte – sono le antracicline e le fluoropirimidine, che possono indurre soprattutto alterazioni del ritmo cardiaco. Ma anche i farmaci anti-HER2 danneggiano il cuore. I farmaci antiangiogenetici sono spesso causa di ipertensione. Gli inibitori delle chinasi possono provocare alterazioni del ritmo cardiaco. Gli inibitori dei checkpoint immunitari, come nivolumab, pembrolizumab, sebbene raramente sono causa di miocarditi autoimmuni severe e di pericarditi. Infine, sono in alcuni casi responsabili di un incremento di malattie cardiovascolari la terapia ormonale antiestrogenica e antiandrogenica a lungo termine”.

I pazienti non sono tutti uguali. Da uno studio portoghese presentato a dicembre a EuroEcho-Imaging, il meeting annuale della European Association of Cardiovascular Imaging, risulta che il rischio di riportare effetti tossici in seguito alle chemioterapie (in questo caso specifico i ricercatori hanno valutato la cardiotossicità delle antracicline) è più elevato nelle persone con diabete e negli ipertesi. Ci sono, cioè, pazienti oncologici più a rischio cardiaco di altri, sembrerebbe. Ancora Conte: “Il rischio cardiotossico dipende da fattori diversi. L’età: rischiano di più i più anziani; poi le terapie concomitanti, cioè l’aver fatto più trattamenti, chemioterapia più radioterapia. La radioterapia su campi che includono il cuore, come il tumore del polmone, o della  mammella sinistra, moltiplica la cardiotossicità di tutti i farmaci, oltre ad essere cardiotossica di per sé. Un altro fattore di rischio è la comorbidità, la presenza cioè di altre patologie, ipertensione o  dislipidemie per esempio. Infine lo stile di vita, che ha la sua importanza: fumo e sovrappeso giocano un ruolo anche nel rischio cardiotossico in oncologia”.

Cosa può fare il paziente. A proposito di stili di vita, come ci si può proteggere, dopo le terapie, dal danno delle cure? “Naturalmente sottoponendosi regolarmente agli esami appropriati prescritti dal medico: elettrocardiogramma, misurazione della pressione arteriosa, eccetera – risponde Conte – e adottando una dieta sana, povera di sodio e di grassi animali, evitando il sovrappeso, e svolgendo una moderata attività fisica. È bene stare attenti anche ad associazioni particolari di farmaci o alimenti che possono aumentare il rischio di cardiotossicità, per esempio gli inibitori delle chinasi ciclinadipendente non vanno assunti insieme a succhi pompelmo, né somministrati insieme ad antivirali o antifungini”.

L’importanza di segnalare gli effetti avversi.  “Gli oncologi si comportano in maniera disparata rispetto alla tossicità cardiovascolare. Questo risultato sottolinea […] la necessità di avere linee guida formali redatte da esperti di società di oncologia e cardiologia”. Sono le conclusioni riportate nell'abstract, cioè nella sintesi, di uno studio pubblicato a marzo sull’International Journal of Cardioncology, condotto da ricercatori dell’Università francese di Aix-Marseille, che hanno sottoposto questionari a oltre 300 oncologi. Ma sono le linee guida uno dei problemi della cardi-oncologia? “L’ Aiom, l'Associazione degli oncologici italiani, inserisce sempre nelle sue linee guida le raccomandazioni sul monitoraggio cardiologico”, tiene a dire Conte: “Il problema principale, a mio avviso, è che purtroppo gli oncologi - come peraltro quasi tutti i medici - non sempre segnalano all’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, le reazioni avverse provocate dai farmaci, compresi quindi anche gli eventi cardiovascolari che si verificano nella pratica clinica. E che spesso sono molto più frequenti di quelli segnalati negli studi clinici, dove, come dicevamo, vengono inseriti solo pazienti che non hanno pregresse malattie cardiovascolari e sono mediamente più giovani”.