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Cancro al seno, possiamo prevedere chi si riammalerà?

Markus Winkler on Unsplash
Markus Winkler on Unsplash 
Il rischio di recidiva per chi ha un certo tipo di tumore, chiamato HER2-positivo, è del 20-25%. Per riuscire a ridurre questa percentuale servono nuovi test e nuovi farmaci
4 minuti di lettura

SIMONA ha un tumore al seno. Un tumore al seno “HER2-positivo”, così lo ha chiamato l’oncologa con cui ha fatto la visita in ospedale. Non aveva idea che i tumori avessero dei nomi e non sa cosa significhi quella sigla, ma ora non le importa. Uscita dall’ambulatorio le sono rimaste in testa solo due cose: HER2 è qualcosa che rende il suo cancro aggressivo e veloce - notizia non buona; ma è anche una specie di bersaglio che viene preso di mira da certi farmaci efficaci - notizia buona. In quello stesso momento anche Miriam legge sul suo referto “carcinoma mammario HER2-positivo”. Guarda il chirurgo che la dovrà operare e pensa solo che il giorno del suo quarantesimo compleanno se lo era immaginato diverso. Nel migliore dei mondi possibili, i loro casi saranno analizzati e discussi da un consesso di medici che, insieme, decideranno come curarle sulla base delle più aggiornate evidenze scientifiche disponibili. Nonostante questo, una di loro avrà di nuovo a che fare con il tumore al seno e con HER2, probabilmente entro un paio d’anni, mentre l’altra no. Perché? Qual è la differenza? Non lo sappiamo ancora, ma è esattamente ciò che il progetto Residual risk of relapse, coordinato dalla Fondazione Periplo, mira a comprendere, come vi raccontiamo nella newsletter di Salute Seno (qui il link per iscriversi gratuitamente).

 

I tumori HER2

Secondo le stime ci sono circa 7 mila donne che ogni anno in Italia ricevono la diagnosi di tumore al seno HER2 positivo in fase iniziale: quasi il 15% di tutti i carcinomi mammari in stadio I, II, o III che si registrano annualmente (poco più di 46 mila casi in tutto).
 


HER2 (acronimo anglosassone di Recettore di tipo 2 del fattore di crescita epidermico umano) è una proteina che si trova in elevate quantità sulla cellule di diversi tumori, non solo al seno, e che aumenta la capacità del cancro di crescere e diffondersi. Uno dei primi farmaci dell’oncologia di precisione, trastuzumab, è proprio diretto contro HER2 e ha cambiato la storia di questa malattia. Questo tipo di cancro al seno, infatti, era molto difficile da trattare e con prognosi spesso infausta mentre oggi, grazie a trastuzumab - e alle altre terapie mirate anti-HER2 che sono seguite - possiamo parlare di alti tassi di guaribilità: il 75-80% di queste pazienti non avrà più a che fare con la malattia, una volta finite le cure.

Però ci sono le altre: quel 20-25% che invece avrà una recidiva. E quasi 3 oncologi su 4 pensano che sia necessario migliorare il protocollo della terapia - sia prima e che dopo la chirurgia - per ridurre il più possibile questa quota, come rileva un sondaggio condotto proprio nell’ambito del progetto della Fondazione Periplo. Secondo i medici intervistati, per quasi un terzo delle pazienti con tumore HER2-positivo, le terapie che abbiamo non sono sufficienti.

 

Come individuare le pazienti più a rischio

Forse, però, la prima domanda da porsi è: possiamo individuare chi si riammalerà? “Sappiamo che chi presenta alcune caratteristiche - come un tumore più grande, con coinvolgimento dei linfonodi ascellari, un ritmo proliferativo elevato delle cellule tumorali - ha maggiori probabilità di andare incontro a una recidiva”, risponde Pierfranco Conte, presidente della Fondazione Periplo e direttore della Divisione di Oncologia Medica 2 presso l’Istituto Oncologico Veneto (IOV) di Padova: “Ma è evidente che questi criteri ‘classici’ non sono sufficienti: ci sono molte pazienti che, sebbene abbiano caratteristiche di alto rischio, non si riammalano, e ci sono pazienti con tumori piccoli e apparentemente a basso rischio in cui vediamo ricadute. Abbiamo bisogno di test aggiuntivi per personalizzare la cura e anche per capire dove concentrare la ricerca su nuovi farmaci”.
 

Un test genomico per HER2

Un test di questo tipo è già in sviluppo come programma di ricerca dell’Istituto Oncologico Veneto di Padova, in collaborazione con l’Università di Barcellona. “Abbiamo analizzato i tessuti tumorali di oltre un migliaio di donne operate per tumore al seno HER2-positivo, mappando l'espressione di determinati geni e includendo le informazioni tradizionali”, continua Conte: “Questo lavoro ci ha portato a definire un algoritmo che sembra utile per discriminare le pazienti più a rischio, in maniera indipendentemente dai parametri classici”. Lo studio era stato pubblicato lo scorso anno su Lancet Oncology ma da allora l’algoritmo è stato ulteriormente migliorato, includendo altri geni importanti per la progressione della malattia. Il nuovo lavoro è in corso di analisi.


Il rischio di recidiva, ovviamente, non riguarda solo i tumori HER2-positivi, ma tutti i sottotipi, sebbene con percentuali e tempi diversi. Se guardiamo alle statistiche di sopravvivenza, vediamo che in media a 5 anni dalla diagnosi oggi sopravvivono quasi 9 donne su 10 tra quelle che si ammalano. La percentuale è probabilmente ancora maggiore, perché le stime sono fatte con i dati raccolti quando le ultime innovazioni terapeutiche non erano ancora entrate nella pratica clinica. Ma questa media non rispecchia tutte le realtà, perché i numeri cambiano - anche molto - in base al tipo di tumore e allo stadio in cui viene scoperto. Per questo dei test - chiamati genomici - simili a quello in studio sono già stati sviluppati e validati per il tumore al seno di tipo ormono-dipendente (ER-positivo, HER2-negativo), e vengono oggi ampiamente utilizzati in queste pazienti, sia per valutare il rischio di recidiva, sia per evitare la chemioterapia a chi non ne ha davvero bisogno.


Le terapie per HER2

Oggi la classica terapia adiuvante (cioè dopo chirurgia) per chi ha un tumore HER2 in stadio iniziale prevede un anno di trastuzumab in combinazione con la chemioterapia o, nelle donne considerate più ad alto rischio, i farmaci pertuzumab e TDM-1. Trattare tutte le pazienti nel modo più “massiccio” possibile, infatti, non è una buona idea. “Sia perché aumentano le tossicità e gli effetti collaterali - spiega l'oncologo - sia perché si spreca la possibilità di utilizzare quei farmaci nel caso in cui la malattia si ripresentasse: un farmaco usato nel momento del percorso sbagliato è una chance sprecata, perché non si potrà più impiegarlo in seguito in quella stessa paziente. E' necessario porre molta attenzione al rapporto rischio-beneficio delle cure dopo la chirurgia. Sempre più utilizzata, invece, dovrebbe essere la terapia neoadiuvante, che permette di vedere subito come risponde il tumore perché viene somministrata prima dell'intervento chirurgico”.


Quello che serve, però, sono dei nuovi biomarcatori per disegnare ancora più nel dettaglio tutte le sfaccettature di questa malattia. Quello che abbiamo capito del tumore HER2 - e di tutti gli altri sottotipi - non basta se si vuole avanzare di un altro pezzetto nella barra non solo della sopravvivenza a 5 anni, ma di quella a 20 anni.