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Alzheimer e demenze, i 'villaggi' funzionano: quali sono i benefici per i pazienti

Lo insegnano 5 anni di esperienza del primo villaggio Alzheimer italiano. Un percorso terapeutico-assistenziale che cerca di abbattere lo stigma della demenza e migliorare la qualità di vita
4 minuti di lettura

No, la demenza senile non esiste. Attribuire una fragilità cognitiva semplicemente all'età, infatti, non solo non è corretto dal punto di vista scientifico, ma crea un pregiudizio che ostacola la corretta diagnosi della specifica malattia di ciascuno. Diagnosi che ogni persona ha diritto di avere. E no, queste persone non sono "invisibili": un'altra etichetta da cancellare, soprattutto dalla testa dei clinici.

Spesso, infatti, i pazienti vengono ignorati durante le visite, non coinvolti nelle decisioni di cura, definiti "incapaci", "non autosufficienti", "aggressivi" o persino "pazzi". Tutti termini che contribuiscono a creare lo stigma della demenza. "Bisogna scardinare questo linguaggio, ed è quello che cerchiamo di fare ogni giorno", dice a Salute Mariella Zanetti che lavora come geriatra presso il Paese Ritrovato, una struttura alle porte di Monza sorta nel 2018 per volere della Cooperativa La Meridiana (grazie alle donazioni di famiglie, enti e imprese di Monza e Brianza) e concepita come un vero piccolo borgo, in cui i residenti con Alzheimer o decadimento cognitivo (in fase lieve o moderata) sono messi nelle condizioni di condurre, in autonomia, una vita adeguata alle loro condizioni.

 

La possibilità di autodeterminazione dei pazienti con demenze o Alzheimer

In effetti, quando si parla di persone affette da Alzheimer o in generale da demenza, il più delle volte si descrivono pazienti non più adeguati a vivere la quotidianità. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Davvero chi presenta queste condizioni non è in grado di fare delle scelte, di coltivare degli interessi e delle amicizie? Cinque anni di esperienza del Paese Ritrovato dimostrano il contrario.

Una giornata nel villaggio Alzheimer, la geriatra: "Qui la qualità della vita è al centro della cura"

I dati sugli effetti di questo approccio sulla qualità di vita sono stati presentati in anteprima nei giorni scorsi, durante la conferenza "La presa in cura delle fragilità. Malattie neurodegenerative e demenze: impatto sociale e sanitario", organizzata da Fondazione Roche e Cooperativa La Meridiana. "In questi 5 anni abbiamo cercato uno sguardo nuovo con cui guardare a queste persone - continua Zanetti - e di superare il modello tradizionale, medicalizzato, con cui vengono solitamente ospitate. I modelli attuali mettono l'enfasi su ciò che non si è più in grado di fare e creano una condizione in cui il paziente non può che essere spettatore della propria vita, contenuto dal luogo o dai farmaci. A questo modello stiamo cercando di contrapporre un modello di cura che metta davvero al centro la persona: non solo le sue caratteristiche neuro-cognitive, ma la sua personalità, le sue abitudini, il suo modo di relazionarsi con gli altri. L'obiettivo è restituirgli la dignità della possibilità di una scelta, anche la più banale: a che ora svegliarsi, dove andare a mangiare, con chi e dove stare. E di potersi autodeterminare, anche nella cura".

I dati dell'analisi sulla qualità di vita

Nel Paese Ritrovato i residenti (tutti autonomi) vivono in 8 appartamenti da 8 posti ciascuno, con camere e bagni privati e altri spazi comuni, come la cucina. Nel villaggio c'è una piazza, un orto, un giardino, negozi, la chiesa, la biblioteca, la bottega dei mestieri, la palestra, il cinema, il teatro-cinema. L'orientamento viene facilitato da colori, illuminazione e segnaletica, e l'ambiente è ovviamente controllato, ma nel modo più discreto e "invisibile" possibile.

Che impatto ha questa gestione sulle persone? Per rispondere, Zanetti e colleghi hanno somministrato delle interviste strutturate secondo il protocollo QUALITY_VIA, uno strumento per identificare i bisogni e la soddisfazione dei residenti con decadimento cognitivo nel lungo periodo.

Nell'arco di circa due anni sono stati coinvolti 35 ospiti (25 donne e 10 uomini) con un'età media di 81,5 anni, scolarità media di 9,35 anni, e una compromissione delle capacità cognitive moderata (punteggio medio del Mini-Mental State Examination di 20,95).  Complessivamente, sono state svolte quasi cento interviste, fino all'inizio della pandemia.

Ebbene, il valore medio per la qualità di vita percepita è risultato essere di oltre 100 (su un valore di riferimento di 99,75 e rispetto al valore di 77,8 di una RSA tradizionale). È stata misurata anche la soddisfazione per le cure ricevute, per l'ambiente, per il rapporto con il personale, per le attività, per la privacy e la determinazione, per la coesione sociale, per l'autorealizzazione e la spiritualità, e i risultati indicano quasi sempre valori uguali o superiori a quelli di riferimento. Uno dei valori inferiori riguarda l'affermazione "sono soddisfatto dei servizi di assistenza sanitaria", ma l'analisi delle risposte evidenzia come spesso i residenti non ritengano di dover rispondere a questa domanda, dal momento che non percepiscono il villaggio come un luogo di cura sanitaria. I dati completi saranno presentati il prossimo mese nel corso di un convegno.

Riappropriarsi del movimento

Per capire come l'ambiente possa condizionare il benessere di chi soffre di demenza, gli esperti del Paese Ritrovato hanno anche comparato l'uso degli spazi e i movimenti degli ospiti con chi solitamente vive in casa con un caregiver. "In casa, il 40% del tempo viene trascorso tra divano e cucina e per il 60% le persone restano sedute - dice Marco Fumagalli, Coordinatore Servizio Educativo Coop. La Meridiana - La gran parte dei movimenti, inoltre, non è spontanea ma condizionata dai caregiver, che indicano come muoversi e cosa fare o non fare. Nel Villaggio - continua l'educatore - il rapporto invece risulta invertito: il 70-80% del tempo viene trascorso in movimento, quasi sempre spontaneo. Con i parenti decidiamo di accettare un lieve aumento del rischio di caduta a fronte, però, di un enorme guadagno di libertà. Gli spazi del villaggio sono diversi e ognuno corrisponde a una scelta della persona".

Tanti i cliché da superare

Una volta liberi dal senso di controllo e di sorveglianza, continuano gli esperti, possono riemergere diversi interessi, come la curiosità, il desiderio di tornare a imparare, di partecipare a laboratori di teatro, poesia o di cucinare. In questi mesi, per esempio, uno degli ospiti sta tenendo un corso di tedesco. Chi lo segue non imparerà probabilmente la lingua e forse la sera non ricorderà neanche di aver fatto il corso, ma vive un momento di piacevolezza e di stimolo cognitivo.

Una giornata nel villaggio Alzheimer, l'educatore: "Restituiamo ai malati la vita di tutti i giorni"

Non solo: chi soffre di Alzheimer può vivere anche una forte affettività: nascono amicizie, alleanze e persino storie d'amore. "Sulle persone con demenza esistono tanti falsi miti che bisogna superare, per esempio l'idea che siano aggressive, incapaci di stare in mezzo agli altri, non più in grado di apprendere e incuriosirsi - commenta Zanetti - In realtà, al di là dei loro deficit cognitivi, sono persone che hanno abitudini, hobby e desideri. L'aggressività è spesso la risposta a un comportamento per loro non adeguato".

Un vuoto da colmare e le illusioni del PNRR

È chiaro, quindi, come nel sistema di cura delle forme di demenza oggi esista un vuoto: si passa direttamente dal domicilio alla RSA, dove esistono dei nuclei specifici che non sempre risultano adeguati alle esigenze dei pazienti e della famiglia. Un problema non di poco conto se si considera che nel nostro paese, dove oggi le persone colpite da Alzheimer sono 600 mila, l'incidenza di questa malattia passerà dai 204.584 nuovi casi all'anno nel 2020 ai 288.788 nel 2040.

"Il tema della presa in cura delle fragilità interseca vari problemi che riguardano l'attuale situazione del nostro sistema sanitario nazionale  - commenta Mariapia Garavaglia, Presidente Fondazione Roche - Le missioni 5 e 6 del PNRR avevano creato aspettative, che ora mi permetto di definire illusioni, perché i molti finanziamenti messi a disposizione sono destinati principalmente alle strutture e non all'organizzazione di servizi innovativi, fatta eccezione per la digitalizzazione. In particolare - conclude Garavaglia- emerge una totale assenza di servizi dedicati proprio alle grandi disabilità dovute alla malattia di Alzheimer e alle demenze. Le statistiche e la sociologia indicano con chiarezza come dovrà cambiare la presa in carico delle fragilità, intesa tanto come 'to cure' quanto come 'to care', ossia 'prendersi cura'. E quindi non solo pura preparazione professionale, ma anche una proposta qualificata di atteggiamenti psicologici verso le persone fragili: dolcezza, attenzione, pazienza. Non solo virtù personali e volontaristiche, bensì scelte terapeutiche che possono restituire ai pazienti la pienezza della dignità che appartiene a ogni essere umano, anche nella sofferenza più profonda e imperscrutabile".