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La kermesse canora

Dalle provocazioni di Benigni a Zelensky, quando la politica si prende il festival di Sanremo

Nella storia della rassegna sono moltissimi gli episodi che crearono polemiche favorendo così l’Auditel

GIAN PAOLO POLESINI
Aggiornato alle 2 minuti di lettura

Zelensky sta dividendo la politica italiana (e pure qualche salotto) ma la guerra stavolta non c’entra. Il presidente ucraino si offrì tempo fa per un’apparizione sanremese a seguito di quelle cinematografiche a Cannes, Venezia e per i Golden Globe e la Rai gli rispose «ottimo, vada per una registrazione di due minuti nella serata finale dell’11 febbraio dopo la mezzanotte».

Ovverosia nella zona festivaliera più bollente, quella che traina il vincitore. Viale Mazzini, senza colpevolizzare nessuno, avrà ipotizzato schizzi perentori di Auditel obbligando così gli inserzionisti della fascia notturna a svenarsi per uno spot.

L’ideologia e l’eventuale pensiero colto di fronte a cascate di denaro non previste e possibili, prende la consistenza di un topo in groppa a un elefante.

Infatti alle frequenti sollecitazioni di ministri e onorevoli a fare marcia indietro - fra cui è opportuno citare Conte, Salvini, Calenda - la televisione di Stato ha risposto “niet”. Così è deciso e così sarà.

È sceso in pista pure Casini che ha chiesto la presenza di Putin per par condicio. Poi, si sa, il made in Italy sbraca sempre. D’altronde è comprensibile. Non si è mai visto un Sanremo moderno privo di provocazioni, su.

Fomentare la folla sta all’articolo 1 della costituzione del festival della canzone italiana. Impossibile scindere le note dalla lotta, i proclami dai fa diesis, le polemiche dalle imprecise discese dalle scalinate dell’Ariston.

L’invadenza di Zelensky è controproducente, poi il boss non si lamenti se il popolo dei social lo mena per il naso.

La didascalia della foto del presidente che gira per il web è quanto mai eloquente: “Siamo disponibili anche per matrimoni, feste e battesimi”.

Scema la credibilità e si assottiglia la fiducia verso uno che finisce a fare il prezzemolino. La Rai, è chiaro, ne approfitta.

È piuttosto corposa la raccolta di episodi politicamente scorretti nei decenni successivi agli anni Ottanta.

Cercando di risalire dal Novecento al terzo millennio il primo impatto fu quello di Roberto Benigni, ospite della tredicesima edizione (1980), che apostrofò Papa Giovanni Paolo II come «Wojytilaccio», scatenando le ira dei cattolici. Il comico fu incriminato per offese alla religione.

Quattro anni dopo il festival lo vinsero Romina e Al Bano con “Ci sarà”. Durante la prima puntata, fuori dal teatro, scoppiò una clamorosa protesta degli operai dell’Italsider di Genova contro un ampio piano di licenziamenti.

Baudo - è storia - annunciò tre canzoni di fila e uscì a trattare con loro, ma prima ne parlò col pubblico. Fu un abile diplomatico e la puntata ebbe un successo pazzesco.

Nel 1995 sempre Baudo si arrampicò in cima all’Ariston dove osano i riflettori, per scongiurare un suicidio in diretta, o così ci fecero credere.

Il disoccupato 38enne Pino Pagano minacciò di buttarsi, ma l’abbraccio e le rassicurazioni di Pippo lo fecero desistere fra gli applausi del pubblico e di un gongolante share.

Fabio Fazio, come dimenticare, nel Sanremo 1999 portò sul palcoscenico Mikhail Gorbaciov che scese le scale del teatro mano nella mano con sua moglie Raisa, la quale svelò di aver conosciuto il marito grazie ai valzer di Strauss.

«Io canto – rivelò il presidente – solo quando bevo un po’ troppo», ringraziando poi tutti gli italiani, «che sono amici fidati e sicuri». Fu una polemica sterile, che si sciolse nella tenerezza quando si scoprì che i soldi sanremesi a Gorbaciov servirono per curare la moglie, che poi morì alla fine dell’anno.

Nulla di così importante accadde nei decenni successivi, solo qualche pagina in più che i giornali ben volentieri dedicarono a qualche minima sommossa prima, durante e dopo i festival.

Come nel 2000 quando Jovanotti fu invitato come ospite e cantò “Cancella il debito”. Il testo “chiedeva” ai potenti la cancellazione del debito dei Paesi nel sud del mondo soffocati dal divario accumulato verso le nazioni industrializzate. L’allora premier D’Alema convocò il rapper e Bono degli U2 per discutere dei temi evocati dal brano.

La figuraccia, nel 2013, la fece, invece, Maurizio Crozza, fischiato e contestato dalla platea durante una sua imitazione di Berlusconi. Cantando Aznavour, il clone del cavaliere distribuì mazzette agli orchestrali chiarendo: «Tranquilli, non sono i miei soldi, ma i vostri!».

E la contestazione salì in cattedra, tanto da bloccare Crozza dentro un notevole imbarazzo. Senza saliva né energie il comico fu supportato da Fazio, che entrò in scena calmando gli spettatori più esagitati e facendo proseguire il lungo show di satira politica dell’attore ligure.

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