Due gol ai pregiudizi
Sì, lo sport più misogino d’Italia a un certo punto ha dovuto fare i conti con l’altra metà del cielo. E lo ha fatto nel modo più bello, al debutto di un Mondiale in diretta tv, con un gol all’ultimo respiro stile “Quella sporca ultima meta”. E i tanti fra quelli che si erano sfamati a lungo a suon di pane e luoghi comuni, hanno dovuto riporre il loro carico di pregiudizi nel cassonetto delle sciocchezze.
Il calcio da noi, purtroppo, fino a qualche anno fa non è mai stato sport per donne, e non solo in campo. Oggi c’è ancora chi storce il naso solo nel sentire la voce di una telecronista (e ce ne sono di bravissime). Anche uno come Maurizio Sarri, tecnico all’avanguardia nel trattare diritti civili con spirito progressista, ai tempi del Napoli un paio di volte si è comportato come un Donald Trump qualsiasi. A una domanda, peraltro pertinente, di Titti Improta, inviata di Canale 21, aveva risposto con un delirante «non ti mando a fare in culo solo perché sei una donna e sei carina». Retaggio di un modo di pensare, non nascondiamocelo, molto diffuso in questo mondo dove le donne potevano entrare sì, ma per fare tappezzeria o al massimo come veline legate al bomber di turno.
Anche fra i tecnici, fino a qualche anno fa, quello delle donne, era considerato a torto «un altro sport». Certo, se non le fai allenare come si deve, se il livello lo mantieni basso perché neghi ogni mezzo di crescita, è difficile che si possa pensare in grande. Senza contare poi che erano gli stessi dirigenti del calcio a guardarle con sano disprezzo. A partire dall’impresentabile Carlo Tavecchio, che il mondo dell’italico pallone ha eletto per due volte al vertice federale. Dopo la squalifica Uefa di sei mesi per razzismo, grazie alla famosa gaffe su Opti Pobà e le banane, se ne era uscito – nel luglio del 2014 – anche con un «pensavo fossero handicappate». Subito spalleggiato da uno dei suoi più fidi scudieri, il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, che nel maggio del 2015, aveva rincarato con un «basta, non si può sempre parlare di soldi a queste quattro lesbiche».
Poi, per fortuna, il vento è cambiato. Ma non esattamente per merito nostro. È accaduto solo perché l’Uefa ha costretto le federazioni a obbligare i club a svolgere un’attività femminile “vera” per iscriversi alla Serie A. E così Juventus, Milan, Fiorentina, Roma, Inter e compagnia hanno cominciato a fare sul serio e il livello di attenzione si è alzato, così come la qualità della nostra nazionale, guidata da una come Milena Bertolini che ha il patentino per allenare anche la Serie A maschile, e in tutto sono solo due quelle in grado di farlo. L’altra è Carolina Morace, calciatrice simbolo degli anni più difficili del nostrano calcio in rosa.
L’Italia oggi ha poco più di 22mila tesserate contro le 112mila delle australiane battute ieri a Valenciennes. Di queste 112 mila, ben 84mila sono nei settori giovanili. Di fatto, guardando la sfida di ieri come se fosse al maschile, l’Italia erano loro. E abbiamo vinto noi, quelli di un campionato dove le australiane non possono giocare per contratto, perché la loro federazione lo considera troppo scarso.
Motivo in più per gioire e tornare subito nell’alveo del profilo basso. Ora infatti corriamo il rischio contrario: le troppe pindarate potrebbero arrivare a nuocere a questo gruppo di ragazze sane. Una cosa le unisce ai maschi: il pregiudizio dei cretini di ogni età. Gli stessi che ce l’avevano con Mario Balotelli anche dopo i due gol alla Germania a Euro 2012, in questi giorni hanno avuto da ridire sulla collocazione in primo piano nella foto di gruppo delle azzurre di Sara Gama, giocatrice laureata con padre congolese e madre triestina. Era in primo piano perché di questa squadra è la capitana, così come lo è della Juventus campione d’Italia.
I due gol segnati da Barbara Bonansea non hanno steso solo l’Australia. Comunque vada, da ieri è davvero finito un esilio figlio dei peggiori pregiudizi. — BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
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