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Sorpresa: l'Italia è indietro con gli smartphone. E li usiamo solo per i social

Sorpresa: l'Italia è indietro con gli smartphone. E li usiamo solo per i social
Comscore pubblica i suoi dati sull'uso del mobile nel nostro Paese. Nuovo campanello di allarme: il mondo digitale lo vediamo solo attraverso gli algoritmi di Facebook e Google. Tutto il resto quasi non esiste
2 minuti di lettura
ROMA - "No. Non è vero che in Italia siamo avanti nell'uso degli smartphone. Anzi, siamo indietro perfino rispetto alla Spagna e li sfruttiamo solo per guardare Facebook o i servizi di messaggistica alla WhatsApp".  Fabrizio Angelini, a capo di Comscore, parla così del nostro Paese. E pensare che è stato fra i primi ad aver adottato con entusiasmo i telefonini. Il tasso di penetrazione al 100 per cento è stato raggiunto nel 2003 e cinque anni dopo avevamo una sim e mezzo a testa. Record. Oggi quel primato, stando alla Comscore, appartiene al passato: il 73,1 per cento della popolazione italiana ha uno smartphone, contro il 75 dell'Inghilterra, l'80 degli Stati Uniti, l'82 di Spagna e Francia, l'83 della Germania.
"Ma quel che è peggio", prosegue Angelini, "è l'uso che ne facciamo. Stiamo barattando il Web da pc con il Web su mobile, solo che non è più il Web. Non si naviga, non si scoprono cose nuove, ci si limita a frequentare social network e chat. Il mondo digitale si ferma lì". La polarizzazione non è un novità. Dalla Deloitte alla Gartner, sono almeno due anni che tutti registrano lo stesso fenomeno: sulle prime due app più usate si spende la maggior parte del tempo. Agli altri, pochi comunque, vanno le briciole. In Italia su tre minuti spesi online, due sono da telefono o tablet dove Facebook e Google non offrono più semplicemente delle piattaforme, sono editori che su mobile fanno da filtro fra noi e il mondo digitale. Con un tornaconto in termini di raccolta pubblicitaria e di dati.

Anche da noi si conferma il fenomeno dei video: YouTube, Facebook e soprattutto lo streaming di Netflix, Sky e Amazon stanno facendo breccia. Il 55% di chi ha un telefono evoluto ormai guarda soprattutto video. Ma sempre dopo aver scambiato commenti con gli amici sui social e chiacchierato via chat. 

La galassia Google ha una penetrazione dell'89 per cento in Italia, quella di Facebook del 74. Altrove la musica è diversa, anche se di poco. L'intrattenimento negli Stati Uniti, dai film in streaming di Netflix ai brani di Spotify, è la prima categoria su mobile come nel Regno Unito. Da noi invece ci sono le chat che Comscore raggruppa sotto la categoria "servizi" seguite dai social. Su queste due spediamo il 65 per cento del nostro tempo. Solo il tre per cento è dedicato alla ricerca online e un altro tre alle news. Certo, le notizie arrivano anche attraverso Facebook ma gestite dai suoi algoritmi. Senza dimenticare le bufale e le mezze verità virali tanto di moda negli ultimi mesi.
In dettaglio troviamo al primo posto WhatsApp di Facebook presente nel 93 per cento degli smartphone, seguita da Google Play (90%), Google Search (74%), YouTube (73%), Messenger di Facebook (59%), Google Maps (57%), Gmail (52%), Google calendar (51%), Google Drive (36%), Instagram di Facebook(28%). Questi sono dati relativi a dicembre e valgono solo per Android, il sistema operativo di Google presente su oltre il 70 per cento dei telefoni in circolazione da noi. E per quanto alcune delle app sopra elencate siano istallate di default, Google Play in primis che è un negozio di app, fa comunque impressione vedere che le prime dieci posizione siano occupate da sole due grandi multinazionali. Per trovare qualcosa di diverso bisogna arrivare alla tredicesima posizione dove c'è l'app di Amazon.

Fin qui la diffusione. Se guardiamo al traffico di dati generati però il duopolio non cambia. Per Ericsson, sempre su Android, in Italia le prime cinque app sono Facebook, YouTube (Google), Instagram (Facebook), WhatsApp (Facebook) e Google Maps. Un autore come Bruce Sterling, fra i "padri" del genere cyberpunk, parlava nel suo The Epic Struggle of the Internet of Things di "neo feudalesimo digitale" e di "nuove chiese" alla quali ormai apparteniamo. Lo scrisse nel 2014.