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Dietro le quinte

IO, ovvero dimmi che sei l’app della PA senza dirmi che sei l’app della PA

IO, ovvero dimmi che sei l’app della PA senza dirmi che sei l’app della PA
Parola a Roberta Tassi, designer con un bagaglio di esperienza in giro per il mondo, per poi impegnarsi in Italia, col Team per la Trasformazione Digitale, e non solo. Ecco come ha reso la PA digitale, e quali sono oggi le sfide da affrontare
3 minuti di lettura

Nel 2016 in Italia il percorso di trasformazione digitale del cittadino subì una notevole accelerazione, grazie - soprattutto - all’attività del Team per la Trasformazione Digitale della Presidenza del Consiglio. Eravamo già abituati all’utilizzo di apparecchi tecnologici per soddisfare le nostre esigenze quotidiane, con l’ausilio di applicazioni delle grandi multinazionali tech, dal controllo del conto in banca, all’affitto di un appartamento per le vacanze. Non si può affermare che la stessa semplicità di fruizione fosse riscontrabile con i servizi pubblici. La scommessa del Team era quindi portare l’esperienza d’uso della Pubblica Amministrazione online il più vicina possibile a quei servizi privati largamente utilizzati dal pubblico. Tra i protagonisti di questo percorso c’è Roberta Tassi, e Italian Tech l’ha raggiunta in occasione di un suo discorso al Circolo del Design a Torino.

Roberta Tassi è un’esperta designer, ricercatrice, docente, creatrice di Service Design Tools, una collezione aperta di tutorial e strumenti utili al design digitale, e fondatrice di Oblo Design. Una millennial che ha saputo prendere il meglio da ciò che la contemporaneità ha avuto da offrirle, mettendolo poi al servizio degli altri.

«Abbiamo fatto molta ricerca, discutendo con i cittadini degli strumenti digitali con cui interagire con i servizi pubblici - spiega la dottoressa Tassi -. Veniva espresso un forte bisogno di avere applicazioni funzionali come quelle dei colossi hi-tech, ed era richiesta maggiore semplicità di comprendere cosa fossero e a cosa servissero nuovi strumenti come lo SPID. Ora, grazie al lavoro del Team Digitale, c’è maggiore consapevolezza, e soddisfazione nell’utilizzo degli strumenti informatici della PA».

Qual è stato il processo iniziale di digitalizzazione della PA?
«L'azione si è consolidata su due filoni principali: da un lato il creare un design system, quindi un punto di partenza che tutte le amministrazioni potessero utilizzare per progettare servizi digitali di qualità; dall'altro quello di costruire delle piattaforme abilitanti, lavorando ovviamente su asset già esistenti in molti casi, che portassero quello standard di qualità nelle mani del cittadino». 

Il design system di cui parla, cos’è?
«È come un percorso di innovazione distribuita: il design system ha permesso a tante amministrazioni, enti locali, organizzazioni, di ribaltare il proprio modello mentale nel progettare servizi digitali, mettendo il cittadino al centro. L’abbiamo fatto partendo da una base di buone pratiche, e poi dal lavoro sulle piattaforme infrastrutturali abilitanti, come lo SPID, che ha permesso di pensare a prodotti più avanzati».

Prodotti come IO?
«Sì, l'applicazione IO è concepita come il punto unico di accesso per il cittadino verso i servizi della Pubblica Amministrazione, e non appare come ci si aspetterebbe da un app della PA. Con questo strumento, sempre a portata di mano, si vuole poter fare qualsiasi cosa con i servizi pubblici, con la stessa piacevolezza ed efficacia che ritroviamo anche in altre app che utilizziamo nella nostra quotidianità. Quando nel 2018 questa era ancora un'idea, volevamo sapere quale fosse l'opinione dei cittadini, e che cosa effettivamente si aspettassero: è stata subito ben percepita, partendo proprio dal nome “IO”. Ma, come dicevo prima, in quel momento c'erano anche tanti dubbi, scetticismo, e poca consapevolezza di quali erano gli strumenti digitali già a disposizione». 

Ora che la consapevolezza è maggiore, su cosa è necessario lavorare?
«In questo nuovo scenario di maggiore maturità, le sfide che si aprono per i progettisti sono un po' diverse: innanzitutto dobbiamo essere in grado di gestire le aspettative, quindi costruire fiducia. Come abbiamo visto durante la pandemia, con servizi pubblici come ad esempio il “bonus sostenibilità” dove in migliaia si connettevano in contemporanea al sistema, questo deve funzionare allo stesso modo, poiché oltre al servizio offerto c’è la necessità di non deludere l’utente. Oltre a ciò, l’altro tema importante è la capacità di comprendere i propri diritti digitali: dobbiamo essere in grado di fugare i dubbi e togliere elementi di confusione, accompagnando ed educando gli utenti. L’esempio di Immuni, in questo caso è calzante: c’era preoccupazione nel suo utilizzo proprio per una mancata percezione di sicurezza della propria privacy, che ovviamente c’era ma non è stata compresa. Infine, un altro punto emerso dalla ricerca riguarda il digital divide, e quindi l’accessibilità: i cittadini digitali possono diventare punti di riferimento per chi è più “analogico”. Questo noi lo traduciamo nei progetti attraverso la costruzione di meccanismi di delega digitale, o accessi temporanei per chi presta aiuto».

Abbiamo parlato dei cittadini, ma i dipendenti pubblici?
«Nel service design l’utilizzatore finale, ossia il cittadino, e gli operatori, quindi i dipendenti della PA, sono sullo stesso piano, interlocutori alla pari. Quindi, come esiste un'interfaccia per il cittadino, ne esiste una per le amministrazioni, altrettanto semplice e intuitiva, che spiega come utilizzare i sistemi e come integrare ed erogare i servizi. E poi c’è stato anche un accompagnamento, sì, ma sempre per entrambi». 

Riguardo alle sue esperienze all’estero, qual è la caratteristica culturale italiana del suo lavoro che è stata più apprezzata?
«Lavorando con progettisti provenienti da tutto il mondo, sono diventata più consapevole del nostro approccio culturale ai progetti, molto legato alla nostra tradizione del design, che purtroppo valorizziamo poco. Abbiamo un atteggiamento naturalmente critico nei confronti dei problemi che affrontiamo, e invece di cercare subito la soluzione, analizziamo meglio il problema, e a volte riformuliamo la domanda progettuale: questa è una qualità che dovremmo continuare a coltivare».

E cosa invece ha imparato e poi portato con sé al suo ritorno?
«Sicuramente la dinamicità, la propensione al rischio, e la serenità nel commettere errori. Insomma, buttarsi nelle novità, e provare: in Italia faccio molta fatica a trovare queste caratteristiche, anche per i pochi sostegni alle piccole e medie imprese. Tornando in Italia, e creando il mio studio di design, ho cercato di portare con me queste peculiarità».

@LuS_inc