Tutto è cominciato con un messaggio di posta elettronica che mi è arrivato alle 23.55 del 14 agosto: “Ciao Michela, ti inviamo questa e-mail per confermarti che non sei più amministratrice sulla pagina Michela Marzano. Se desideri comunque un ruolo, puoi chiedere agli amministratori della pagina di aggiungerti di nuovo”. Cioè? Mi sono chiesta leggendo l’e-mail di Facebook. Cos’è successo? Com’è possibile? Chi sarebbero i nuovi amministratori della MIA pagina?
Incredula, ho provato a connettermi e ad accedere alla mia pagina, ma, dopo un po’, mi sono dovuta arrendere all’evidenza: la pagina non esisteva più, era svanita nel nulla. Perché capitano tutte a me? Mi sono ripetuta sempre più affranta, continuando inutilmente a cliccare ovunque, mentre mi tornava in mente la storia raccontata da Kafka nel Processo, quando K., svegliandosi una mattina, trova al proprio capezzale due poliziotti che lo arrestano, senza spigargli né di cosa fosse accusato né chi fossero gli accusatori. Poi, all’improvviso, ho avuto un flash. Il giorno precedente avevo partecipato a una riunione su Zoom organizzata da un’agenzia americana che, alcune settimane prima, mi aveva contattato proponendosi di aiutarmi a scoprire e utilizzare nuove funzionalità della mia pagina. E io, che passo il tempo a ripetere ai miei anziani genitori di non fare entrare in casa sconosciuti, di non accettare alcuna proposta telefonica, di buttare nella spazzatura ogni e-mail sospetta, ci sono cascata.
Ho partecipato alla riunione su Zoom, ho cliccato dove mi si chiedeva di cliccare, ho copiato e incollato vari link e, per farla breve, ho praticamente dato le chiavi di casa mia in mano a una banda di sofisticatissimi hacker. Meno di ventiquattr’ore dopo, avevo perso i dieci anni della mia vita che avevo affidato a Facebook. Perché? Ho chiesto spaesata a mio marito, che di informatica è ancora meno ferrato di me e che, però, mi aveva incoraggiato a seguire i consigli di questi tizi che, molto professionalmente, mi avevano contattato con una e-mail al di sopra di ogni sospetto: business@thespotlightmarketing.com. E ora che faccio? Ho domandato alla mia amica Serena, che è una bravissima social media manager, e che, esterrefatta, mi ha detto: “Scusa, ma perché non mi hai contattata prima di collegarti su Zoom?” È stato solo dopo che, seguendo le indicazioni di Serena e di altri amici, ho denunciato il furto alla polizia postale e contattato il team di Facebook. Cosa che mi ha permesso, dopo qualche giorno, di riappropriarmi della mia pagina, che esisteva sempre sebbene leggermente monca, visto che nel frattempo gli hacker avevano cancellato nove mesi di post e dirette.
Pare che sia interessante appropriarsi di pagine seguite da un certo numero di follower, svuotarle di ogni contenuto e poi venderle. Pare che sia una pratica frequente e che siano molti coloro cui vengono rubati o clonati profili, identità e pagine. Pare che gli hacker trovino sempre il modo di approfittare della nostra ingenuità oppure anche della nostra distrazione (che sia attraverso il phishing, i keylogger o l’ingegneria sociale). Per loro, una pagina è sinonimo di guadagni. Anche se quella pagina, per chi ne è il titolare, è uno spazio prezioso non certo da un punto di vista economico, ma in termini sentimentali. Foto, post, dirette, ognuno costruisce il proprio spazio giorno dopo giorno affidandogli parte dei propri ricordi. Una memoria scritta a più mani, visto che una delle cose più belle che si trovano su Facebook o Instagram sono i commenti, le osservazioni e le manifestazioni di affetto di chi segue un profilo o una pagina. Una memoria che è parte di noi e della nostra identità, nonostante apparentemente Facebook e Instagram siano solo una vetrina. E per alcuni, forse, è anche così. Ma per la maggioranza di noi rappresentano una sorta di diario di bordo, un libro scritto a più voci che ferma istanti importanti, un insieme di fotografie che, riviste dopo anni, fanno emergere le stesse identiche emozioni.
Ancora non mi capacito della leggerezza con cui mi sono lasciata manipolare. Ancora non ce la faccio a scrollarmi di dosso i sensi di colpa. Ma, proprio come quando ti entrano i ladri in casa oppure, ancora peggio, viene violata l’intimità del tuo corpo, non serve a nulla sentirsi in colpa. Anzi. Ciò che serve è l’accettazione della propria fragilità e dei propri limiti. Senza mai dimenticare che esistono cose che dipendono da noi e altre che, invece, sono indipendenti dalla nostra volontà. E che la saggezza, il più delle volte, consiste solo a saper fare la differenza.