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Il caso

Perché i blackout di Internet sono sempre più diffusi?

Forze armate in Uganda, dove Internet è stata spenta prima dell’elezione del presidente Yoweri Museveni
Forze armate in Uganda, dove Internet è stata spenta prima dell’elezione del presidente Yoweri Museveni 
Impediscono l’accesso alla Rete per giorni interi o bloccano Twitter e Facebook durante le proteste: così i governi autoritari (e non solo) limitano la diffusione della libera informazione
2 minuti di lettura

Nel febbraio del 2021, durante le proteste anti-governative di contadini e agricoltori, Internet ha improvvisamente smesso di funzionare in 14 dei 22 distretti di Haryana, Stato dell’India confinante con Nuova Delhi. Nello stesso periodo, le connessioni mobile si sono bloccate in tutto il Myanmar, in seguito al colpo di stato militare che ha estromesso il governo legittimo (la situazione, ancora oggi, non è tornata alla normalità). Lo stesso è avvenuto a gennaio in Uganda, dove Internet è stata spenta a livello nazionale poche ore prima dell’elezione (la sesta) del presidente Yoweri Museveni. In Nigeria, invece, il governo ha bloccato l’accesso a Twitter per protestare contro la decisione del social network di sospendere l’account del presidente Buhari.

Situazioni simili si sono verificate (secondo quanto documentato in un recente report di Access Now) in Colombia, Ecuador, Turchia, Russia, Sudan, Indonesia e altre nazioni ancora, per un totale di 50 blackout in 21 diversi Stati soltanto nei primi 5 mesi del 2021. Lo spegnimento di Internet (o di sue parti) per periodi più o meno prolungati è ormai una delle armi predilette da dittatori e governi a scarso tasso democratico, che lo utilizzano per impedire la diffusione della libera informazione e per stroncare sul nascere l’organizzazione di proteste e manifestazioni.

Il ricorso ai blackout volontari della Rete è cresciuto drasticamente negli ultimi anni: se nel 2013 ne venivano documentati solo pochi casi isolati, nel 2019 questi erano saliti a 213, prima di calare a 155 nel 2020 in seguito al rinvio delle elezioni e ai lockdown causati dalla pandemia (ma con una durata superiore del 49%). Nel complesso, degli 850 blackout individuati negli ultimi 10 anni, ben 768 si sono verificati dal 2016 a oggi (con l’India primatista assoluta per numero di interruzioni).

Non si tratta soltanto di blocchi totali che coinvolgono un’intera nazione, ma anche di blackout mirati a una particolare area (come quello che recentemente ha colpito la regione afghana del Panjshir, l’unica a non essere caduta nelle mani dei talebani) o che colpiscono specifici siti o social network. Non solo: questi blackout possono essere di durata indefinita (come quello del Myanmar) o venire organizzati solo in momenti ben precisi, come spesso avviene proprio in India.

Queste azioni di stampo autoritario hanno quindi lo scopo di stroncare sul nascere eventuali proteste o celare al mondo le brutali repressioni in corso, anche al prezzo di gravissimi danni economici: in Myanmar, per esempio, si stima che le interruzioni prolungate di Internet abbiano causato perdite per 2,1 miliardi di dollari, pari al 2,5% del Pil. Numeri che non sorprendono, considerando che oggi l’economia digitale vale circa 18mila miliardi di dollari, cioè il 20% del prodotto interno lordo globale.

Sarebbe però sbagliato pensare che solo le nazioni scarsamente (o per nulla) democratiche abbiano la tentazione di schiacciare il bottone rosso e impedire l’accesso alla Rete: come riporta Jigsaw, think-tank di Google, anche negli Stati Uniti è stata in passato proposta una legge (poi abbandonata in seguito alle proteste) che avrebbe conferito al presidente il potere di spegnere l’accesso alla Rete in caso di emergenza.

Quello dei blackout di Internet è insomma un fenomeno che va di pari passo con la cosiddetta Splinternet, la frammentazione della Rete che permette alle singole nazioni di controllare a piacimento il traffico in entrata e in uscita. Se il caso più noto è quello del grande firewall cinese, non va sottovalutato nemmeno il progetto iraniano di creare una vera e propria intranet nazionale (battezzata National Information Network) e nemmeno le sperimentazioni della Russia per scollegare completamente la sua rete (RuNet) dal resto di Internet.

Ci sono dei modi per aggirare questi blocchi e ostacolare la trasformazione dell’Internet globale in tante piccole reti nazionali o regionali? Secondo Access Now, i rimedi sono di carattere tecnico e politico: dall’utilizzo di Vpn, reti private virtuali che permettono di accedere anche a siti e servizi bloccati (mantenendo inoltre l’anonimato), fino a iniziative come KeepItOn, che offre supporto tecnico, politico e legale allo scopo di porre fine il prima possibile ai blackout di Internet. E a impedire che si verifichino in futuro.