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Il libro

Mayer-Schonberger: "Dobbiamo rompere il monopolio sulle informazioni"

Mayer-Schonberger: "Dobbiamo rompere il monopolio sulle informazioni"
Nel libro “Fuori i Dati!” il professore di Oxford auspica un Regolamento Generale sull’Uso dei Dati, che permetterebbe all’Europa di diventare una regione di accesso aperto alle informazioni
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«Il GDPR (Regolamento generale per la Protezione dei Dati n.d.a.) è il “teatrino” della protezione dei dati, più che una reale protezione: premi ok sulle condizioni ed è tutto a posto, mentre in realtà enormi quantità di dati personali continuano a finire nelle tasche delle grandi piattaforme americane». Seduto nella hall del Turin Palace Hotel, Viktor Mayer-Schönberger si aggiusta gli occhiali e continua la sua impietosa analisi delle strategie europee in tema di gestione dei dati. Ne ha anche per il progetto del nuovo cloud europeo GAIA-X: «Si ricorre a soluzioni della politica industriale del XX secolo per affrontare una sfida del XXI secolo».

Il professore di Internet Governance and Regulation all’Università di Oxford è a Torino per presentare al Politecnico il suo nuovo libro Fuori i dati! (Egea Editore, euro 17), scritto a quattro mani con il giornalista Thomas Ramge, in cui articola una proposta per rilanciare il ruolo dell’Europa nello scacchiere digitale internazionale. Il punto di partenza è rompere il monopolio sulle informazioni, attraverso il superamento del GDPR con un nuovo Regolamento generale sull’uso dei dati. La tesi del libro è chiara: bisogna aprire a tutti l’accesso ai dati per rilanciare progresso e innovazione. E l’Europa, oggi schiacciata nella morsa della “guerra fredda tecnologica” tra Stati Uniti e Cina, deve giocare un ruolo da protagonista nella costruzione di un nuovo ecosistema digitale fondato sulla libera circolazione delle informazioni.

Il Data Governance Act può essere un punto di partenza, ma bisogna fare i conti con compromessi necessari, tanto tra i paesi europei, quanto all’interno della stessa Commissione Europea. «Stiamo andando nella direzione di un maggiore accesso ai dati, ma a piccoli passi – spiega Mayer-Schönberger –. Intendiamoci, il GDPR non è tutto sbagliato, ma è sbagliata la strategia di caricare tutta la responsabilità sulle spalle degli utenti, anziché sulle aziende. Quando andiamo al supermercato per comprare prodotti alimentari non facciamo analisi chimiche di tutti quello che acquistiamo, sappiamo che il supermarket è responsabile di quello che vende, perché Facebook o Google non lo sono? Nel mondo digitale non ci sono responsabili. Dobbiamo migliorare il GDPR in questa direzione».

E questo è il momento perfetto. Stiamo “vivendo un periodo di frenetica stasi dell’innovazione”, scrivono ancora gli autori nel libro, a causa della scarsa disponibilità di dati per chi potrebbe usarli per generare valore. Ci troviamo a vivere una situazione paradossale: non sono i dati a essere scarsi, ma il loro uso. Oggi vengono raccolti circa sette volte più dati di quelli che sono effettivamente utilizzati, l’80 per cento di questi non solo non crea valore, ma lo distrugge, perché i costi di raccolta e conservazione non vengono compensati dallo sviluppo di nuova conoscenza. E i dati non sono disponibili perché sono concentrati nelle mani di pochi grandi player (cinesi e americani). Accentuarne la protezione o permetterne l’utilizzo a pagamento rischia di avere un effetto ancor più dannoso. Non dobbiamo proibirne l’uso, ma permetterlo e incentivarlo alle giuste condizioni.

Questa situazione si riflette anche sull’ecosistema delle startup, che da tempo hanno smesso di essere motori dell’innovazione. La colpa è delle exit strategy milionarie (a volte miliardarie), strumento delle Big Tech per eliminare la concorrenza. «Il vero sogno di un giovane imprenditore è diventare il nuovo Steve Job, creare la nuova Google – spiega Viktor –, non essere acquistato da una grande azienda. E allora perché accettano le exit? I soldi certo, ma soprattutto perché non hanno possibilità di scalare e questo perché non hanno accesso ai dati. Se un imprenditore in Europa ha una grande idea fa un prototipo, va online e chiede a una grande azienda: “mi compri?”».

Per invertire la rotta è necessario dar vita a un mondo di open data, avviando una seconda rivoluzione dei dati aperti. La prima ha coinvolto i dati pubblici, non sempre con grandi risultati, adesso bisogna ampliare il discorso ai dati privati. Per farlo è bene capire cosa non ha funzionato con i dati pubblici e non ripetere gli stessi errori. «Molti governi hanno reso accessibili tanti dati, ma non quelli interessanti. Un esempio su tutti: in Austria sono stati resi accessibili i dati sulla localizzazione dei bagni pubblici, decisamente non sono dati di valore – sottolinea Viktor Mayer-Schönberger –. O in Germania i dati del trasporto pubblico locale vengono resi disponibili, ma in modo statico, il dato in tempo reale viene fornito solo a Google, che paga. E poi bisogna considerare la qualità del dato, la tassonomia, il formato. Dobbiamo investire in standard condivisi»

Da dove partire allora? Dal settore scientifico, ad esempio, dove l’accessibilità e la condivisione funzionano molto bene. Anche grazie alle politiche adottate: spesso i finanziamenti sono vincolati al fatto di rendere accessibili i risultati delle ricerche. Nel libro si propone di introdurre l’obbligo di accessibilità partendo dalle grandi aziende (si propongono due parametri per definire i grandi: entrate superiori a 25 milioni di dollari e più di 100mila clienti). Mentre per quanto riguarda i piccoli, se richiedono accesso ai dati altrui, dovranno contraccambiare aprendo anche i propri dati. In questo modo, anche dati apparentemente inutili potrebbero diventare preziosi, se gestiti da soggetti terzi, che li usano per ragioni diverse da quelle per cui vengono raccolti.

Ma come convincere i Big Tech? Servono leggi e sanzioni. «Ad esempio, se un’azienda americana vuole acquistare una startup europea, si potrebbe obbligarla a rendere “open” i dati usati grazie all’acquisizione – spiega Viktor –. Non cancelleremmo il problema delle exit strategy, ma lo renderemmo meno velenoso». L’Europa deve decidere che ruolo desidera avere: diventare un terzo paese colonialista nel campo dei dati o avviare un nuovo paradigma? Un paradigma che deve basarsi su ciò che ha fatto dell’Europa l’Europa: l’Illuminismo. L’Europa dovrebbe diventare una regione di accesso aperto ai dati, che si estenda fino a comprendere il mondo intero, questa la tesi del libro. Un processo ambizioso, ma realistico, come spiega Viktor: «L’Europa può rivestire questo ruolo perché è un mercato grande e interessante. È successo lo stesso con il GDPR: Facebook e Google e gli altri Big si lamentavano del GDPR e dicevano “adesso l’Europa potrebbe perdere i nostri servizi, potremmo lasciare l’Europa”. L’Europa non ha ceduto e alla fine le big company hanno dovuto accettarlo».