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“Un post su Facebook non è un cambiamento politico”: la fondatrice di #BlackLivesMatter parla dei limiti dei social per l’attivismo

“Un post su Facebook non è un cambiamento politico”: la fondatrice di #BlackLivesMatter parla dei limiti dei social per l’attivismo
Al Web Summit di Lisbona interviene Ayo Tometi, che nel 2013 ha lanciato l’hashtag #BlackLivesMatter. Per discutere di benefici e pericoli dei social, in primis Facebook
 
2 minuti di lettura

Incisivo, internazionale e senza una gerarchia precisa, il movimento Black Lives Matter ne ha fatta di strada da quando è stato lanciato per la prima volta, poco più che un hashtag, nel 2013. All’inizio voleva essere soltanto una reazione all’assoluzione di George Zimmerman, che nel febbraio 2012 aveva sparato e ucciso a un diciassettenne afroamericano senza alcuna buona ragione. Poi ci sono stati gli omicidi di Michael Brown ed Eric Garner, altrettanto insensati. Le manifestazioni di Ferguson e New York. L’estensione del movimento a un network capillare di decine di organizzazioni locali, coordinato soprattutto da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi (che ha poi cambiato il nome in Ayo), le tre donne che avevano dato vita all’hashtag anni prima. Infine, nel 2020, il brutale assassinio di George Floyd, che ha trasformato Black Lives Matter in quello che è forse il movimento più partecipato della storia degli Stati Uniti. 

A distanza di un anno, parlando al Web Summit di Lisbona, Tometi riflette sul ruolo centrale che ha avuto la rete nello sviluppo del movimento - e dei suoi limiti. D’altronde, l’anno scorso il 26% degli statunitensi affermava di aver cambiato idea su una propria posizione politica grazie a contenuti e discussioni online: tra loro, moltissimi hanno citato Black Lives Matter e la questione della brutalità della polizia come chiave di volta.

“Nella sfera pubblica vediamo costantemente gesti simbolici, ma abbiamo bisogno di azioni sostanziali che li accompagnino”, commenta l’attivista. “In un’era di simile popolarità per i social media, è facile condividere un messaggio veloce. Ma il punto non è solo che le persone condividano la mera retorica: il punto è il vero cambiamento politico, il raggiungimento dell’uguaglianza sul posto di lavoro, nel sistema educativo, in quello sanitario e via dicendo. Il risultato finale che stiamo cercando è l’assunzione di responsabilità”.

Un’assunzione di responsabilità che, di fronte alle recenti rivelazioni che mostrano come enormi piattaforme come Facebook e Instagram abbiano permesso a disinformazione e discorsi pericolosi di circolare liberamente, prende tutto un altro significato. “Penso che Facebook, o Meta, abbia molta strada da fare per garantire che i sostenitori dei diritti umani e le comunità emarginate e vulnerabili abbiano la sicurezza e la protezione che meritano in qualsiasi sfera pubblica, in qualsiasi spazio in cui si impegnano”, ha affermato Tometi, che come accade a moltissime donne politicamente attive sui social è stata spesso presa di mira da ondate di odio, insulti e minacce. Dei cyberattacchi contro i siti che fanno capo a Black Lives Matter si parlava già nel 2016.

“Esprimiamo la nostra preoccupazione da molti anni ormai, parlando delle minacce che io e molti altri abbiamo ricevuto sulla piattaforma, la difficoltà che abbiamo nello scoprire chi è dietro alcuni di questi messaggi e nel sentirci al sicuro online”, dice. “Io ho smesso di usare Facebook a titolo personale per via di queste preoccupazioni. E so di non essere l’unica: molti dei miei coetanei si trovavano in situazioni simili, si sentivano vulnerabili sulla piattaforma. Ed è un peccato, perché è un posto in cui inizialmente siamo andati tutti solo per essere noi stessi, per esprimere e connetterci con altre persone che amiamo, condividere una foto, parlare dei nostri interessi”. 

Per gli utenti e gli attivisti che si esprimono online in Paesi dove la democrazia è più fragile, i pericoli si moltiplicano. “Stiamo vedendo come Facebook è stato sfruttato per prendere di mira i difensori dei diritti umani”, ricorda Tometi, facendo riferimento all’enorme quantitativo di documenti interni all’azienda che sono stati pubblicati nelle ultime settimane. “In alcune parti del mondo in cui era in atto un genocidio, la piattaforma è stata usata per rintracciare persone di specifiche comunità”.

Cosa fare, allora? Oltre a menzionare la necessità di regolamentazione governativa, negli Stati Uniti ma non solo, l’attivista sottolinea una questione dolente per Meta: quella dell’attenzione insufficiente data ai contenuti e alle comunità non in lingua inglese. “Dobbiamo iniziare a pensare a quelle comunità che sono vulnerabili, che potrebbero non essere in grado per ottenere una risposta alle proprie preoccupazioni perché non parlano inglese. Non è giusto. E il movimento a cui appartengo lotta per avere un mondo inclusivo e sicuro in cui tutti sono in grado di esprimersi ed essere sé stessi. Mi preoccupa quando una piattaforma con delle potenzialità enormi come Facebook viene ridotta a poco più di uno spazio in cui prosperano fattorie di troll, in cui la democrazia è minacciata e le cui funzionalità vengono utilizzate per colpire le popolazioni vulnerabili".