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Social network

Ucraina: il riscatto di Big Tech

Illustrazione di Noma Bar
Illustrazione di Noma Bar 
Dopo l’iniziale colpo di fulmine, Facebook & Co sembravano diventate la sentina di ogni nefandezza. La guerra in Ucraina li sta riabilitando come aggregatori e veicolo di informazioni. Ma le ombre restano
5 minuti di lettura

C'era una volta, prima di Cambridge Analytica e delle fabbriche di troll controllate dai governi, prima delle rivelazioni di Frances Haugen e dei rebranding che guardano a un Metaverso lontano, prima dell’Oversight Board e della tentazione costante di cancellare i propri profili e sentirsi finalmente liberi, una storia d’amore. O almeno qualcosa che ci assomigliava. Era la storia della nostra infatuazione per i social network e tutto ciò che promettevano: la riscoperta di contatti che pensavamo perduti, una maggiore vicinanza a persone appassionate delle nostre stesse cose, l’abbattimento delle barriere fisiche e poi, con le Primavere Arabe, addirittura di interi regimi.
Era anche la storia di come una manciata di compagnie stavano fagocitando pezzi sempre più ingenti dell’economia, arricchendosi enormemente nel raccogliere i dati di grandi masse di utenti senza particolari limiti legali ad arginarle. Questo aspetto, presente fin dall’inizio, sarebbe entrato a far parte del discorso pubblico e politico attorno ai social network a poco meno di un decennio dalla loro adozione.
È almeno dal 2018 che la fiducia nell’industria del tech – e nelle aziende che gestiscono le grandi piattaforme social in particolare – è in declino. Le accuse che sono loro rivolte spaziano dall’aver rovinato la salute mentale degli adolescenti all’incitamento al genocidio alla radicalizzazione politica dei cittadini in vista delle elezioni in tantissimi Paesi, e vanno a toccare gli stessi modelli di business che hanno permesso loro di diventare tanto grandi.
Dopo ogni scandalo, le aziende hanno promesso di aggiustare il tiro e talvolta hanno davvero introdotto maggiori protezioni per gli utenti. Ma l’incantesimo era ormai spezzato e insieme a questa presa di coscienza sociale e politica è arrivata anche una maggiore attenzione dei governi (democratici o meno), pronti a regolamentare le piattaforme. Sia per rispondere, anche se tardivamente, alle storture economiche e sociali che hanno creato, sia per cercare di ristabilire il proprio potere su piattaforme che, soprattutto sotto i regimi più autoritari, sono diventate piazze pubbliche dove è possibile alzare la voce e far conoscere le ingiustizie che accadono nel proprio Paese al resto del mondo.
Nemmeno lo scoppio della pandemia, che offriva la possibilità di dimostrare che i social possono ancora connettere le persone in modo costruttivo, ha portato a un’inversione di rotta significativa. A dieci anni dalla fine delle Primavere Arabe, l’invasione dell’Ucraina può ricordarci della loro importanza per la democrazia?

La risposta delle piattaforme all’aggressione russa

Di fronte ad altre crisi internazionali, negli scorsi anni, le tech company si sono mostrate impreparate o riluttanti a prendere una posizione netta. Dopo l’attacco russo all’Ucraina del 24 febbraio, però, la risposta è stata di una rapidità impressionante.

YouTube, Facebook e TikTok hanno bandito dalle proprie piattaforme in Europa i profili dei media di Stato russi Sputnik e Russia Today, tra le principali fonti di propaganda di Mosca. YouTube ha anche affermato di star rimuovendo contenuti che negano o sottostimano l’invasione e ha reso impossibile la monetizzazione dei video di tutti i propri utenti russi. Apple e Microsoft hanno rimosso l’app di Russia Today dal proprio app store. Twitter ha cominciato ad avvertire gli utenti quando interagiscono con link che portano a testate affiliate allo Stato russo. TikTok ha sospeso lo streaming live e il caricamento di nuovi contenuti dalla Russia in risposta a una nuova legge che minaccia di punire con pene fino a 15 anni di reclusione chi diffonde “informazioni false” sull’invasione dell’Ucraina, che secondo Mosca è soltanto “un’operazione speciale”. Google ha completamente sospeso la sua attività pubblicitaria in Russia e ha smesso di accettare nuovi clienti per i propri servizi cloud. In Ucraina ha messo a disposizione alcune risorse per aiutare chi fugge dal Paese usando Google Maps. Airbnb ha sospeso tutte le operazioni in Russia e Bielorussia e ha promesso che offrirà alloggio temporaneo a 100mila rifugiati ucraini. Amazon ha sospeso le spedizioni di tutti i prodotti al dettaglio e l’accesso a Prime Video ai clienti in Russia e Bielorussia, oltre a sospendere gli account che usano il cloud computing di Amazon Web Services per “minacciare, incitare, promuovere o incoraggiare attivamente la violenza, il terrorismo o altri gravi danni”. Hanno preso posizione, limitando o ritirando totalmente i propri servizi dal mercato russo, anche Netflix, PayPal, Adobe, IBM, Intel, Nvidia, Samsung, Bumble, Electronic Arts, Ubisoft e Nintendo.

L’amplificazione della resistenza ucraina

Nel frattempo, gli ucraini portavano la propria resistenza all’invasione anche online, contrastando la propaganda del Cremlino e conquistando il sostegno degli utenti internazionali grazie a un flusso continuo di video e foto dal Paese appena invaso. Su Instagram, Facebook, TikTok, Twitter gli utenti ucraini hanno cominciato a dare testimonianza delle proprie città distrutte e di come persone qualsiasi siano state strappate alla propria quotidianità dalla brutalità della guerra. E hanno condiviso atti di straordinario coraggio da parte dei propri concittadini, come il video, ormai virale, della signora che dà ai soldati russi dei semi di girasoli da mettere in tasca “così cresceranno fiori sul suolo ucraino quando morirete”. Tra meme che spiegano come fare una bomba molotov, storie di trattori che trascinano via mezzi corazzati russi e post che ridicolizzano gli errori tattici dei nemici, quella che passa è l’immagine di una popolazione che resiste, moralmente e militarmente, all’aggressione. Contando di demoralizzare, nel suo piccolo, gli avversari.


Altrettanto abili nell’usare i social sono le autorità ucraine: i meme pubblicati dal profilo Twitter ufficiale dell’Ucraina erano già famosi, ma è entrato nella leggenda il post su Facebook dell’ente nazionale responsabile per la manutenzione delle strade, che nell’esortare i cittadini a smantellare i segnali stradali e costruire barricate di pneumatici in fiamme per disorientare i russi ha pubblicato una foto di un segnale stradale che invita gli invasori ad andare a quel paese.


E poi c’è, naturalmente, Volodymyr Zelensky, che dall’inizio dell’invasione riesce a rimanere onnipresente sui social nonostante tutto: ogni giorno, sul suo canale Telegram, pubblica video in cui aggiorna i suoi 1,4 milioni di follower sull’andamento della guerra. Telefono in mano, telecamera frontale accesa, Zelensky è stato innalzato ad eroe online, e il fatto che abbia un assurdo passato come attore, comico e doppiatore dell’orsetto Paddington in ucraino non ha guastato nella creazione di una montagna di meme a suo favore. Passerà probabilmente alla storia il video in cui, dal centro di Kiev, risponde alle voci secondo cui sarebbe fuggito dal Paese mostrandosi insieme ai suoi alti funzionari e affermando: “Noi siamo tutti qui. I nostri soldati sono qui. I nostri cittadini sono qui. E rimarrà così”.

Il bavaglio russo

Se il Cremlino non è riuscito a imporre la propria narrazione al resto del mondo, il governo Putin si sta impegnando per mantenere il controllo sul fronte interno. Eva Galperin, direttrice della Cybersecurity presso la Electronic Frontier Foundation, ha sottolineato che «Facebook è il luogo in cui ciò che resta della società civile russa si organizza. Se interrompi l’accesso a Facebook, interrompi il giornalismo indipendente e le proteste contro la guerra». Non a caso, oltre a vietare ai giornalisti di citare fonti diverse da quelle fornite dal governo e aver proibito l’uso di parole come “invasione” e “guerra”, Mosca ha ristretto l’accesso a Facebook, Instagram e Twitter e sta considerando di bollare le piattaforme appartenenti a Meta come “organizzazioni estremiste”.
Lo Stato ha assunto il controllo di VKontakte, il secondo social network più usato in Russia, lo scorso dicembre. Sulle piattaforme non controllate dal Cremlino, però, l’opposizione all’aggressione è più vocale: su Instagram sono oltre 600 mila i post pubblicati sotto l’hashtag #NoAllaGuerra (scritto in cirillico) e alcune celebrità, come l’attrice Danila Kozlovsky o il conduttore televisivo Ivan Urgant, si sono schierate apertamente contro la guerra sui propri seguitissimi profili. Su Telegram – il cui fondatore, Pavel Durov, ha una storia molto travagliata con Mosca  (v. a pag. 10) – si moltiplicano i canali che raccontano, in russo, la violenza contro il popolo ucraino. Per proteggere i propri utenti, Meta ha messo a disposizione in Russia la crittografia end-to-end anche su Instagram, oltre a Whatsapp.


«Creator e influencer, attivisti e musicisti russi stanno usando Facebook e Instagram per accedere alle informazioni e alzare la voce contro l’invasione», ha affermato Nick Clegg, presidente degli affari globali di Meta. «Vogliamo che continuino a essere in grado di farlo. E vogliamo che le persone in Russia continuino a essere in grado di ascoltare il presidente Zelensky e altri in Ucraina».

Un coinvolgimento globale

Ad ascoltare, lontano dal fronte, sono i milioni di persone che stanno seguendo, giorno dopo giorno, l’andamento della guerra e che si stanno organizzando per aiutare come possono. Gruppi Facebook per trovare compagni di viaggio si trasformano in posti dove le persone aprono le porte delle proprie case a rifugiati ucraini in cerca di un tetto sopra la testa. Gruppi come ArchiveTeam si prodigano per mettere al sicuro il patrimonio digitale ucraino. Spuntano i post che dicono, nello specifico, di che tipo di donazioni c’è bisogno, dove si possono portare, come aiutare.


“Nonostante i loro innumerevoli difetti, inclusa la loro vulnerabilità alla propaganda del governo e alla disinformazione, le piattaforme (...) possono rafforzare la nostra comune umanità anche nei momenti più bui”, ha scritto il giornalista statunitense Jon Steinberg.
Se per i social network sembra essere il momento perfetto per brillare, però, rimangono le macchie che da qualche anno a questa parte non riusciamo più a ignorare: la disinformazione, i truffatori che sfruttano momenti di caos ed empatia per arraffare soldi e follower, tutto quell’odio. E il fatto che alcuni degli spazi più importanti per il discorso politico e l’organizzazione dell’opposizione non sono pubblici, ma giardini recintati appartenenti a privatissime compagnie che valgono più del Pil di certi piccoli Stati.

Viola Stefanello Scrive di Internet, relazioni internazionali, diritti umani e questioni di genere per Repubblica, Il Post, Wired, L’Essenziale, The Daily Dot e altre testate.