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Il caso

"Facebook usa i nostri brani e non paga i diritti": l'accusa dei piccoli produttori discografici

"Facebook usa i nostri brani e non paga i diritti": l'accusa dei piccoli produttori discografici
In occasione della visita di Zuckerberg nel nostro Paese, il presidente di AFI, che rappresenta 760 piccoli produttori musicali, torna all’attacco del colosso di Menlo Park: "In 10 anni, danni per milioni di dollari"
2 minuti di lettura

Ennesima grana per Meta, la società che controlla (fra gli altri) Facebook, Instagram e WhatsApp, che “da anni usufruisce dei nostri contenuti musicali senza avere le necessarie autorizzazioni”, per dirla con le parole di Sergio Cerruti, presidente dell’associazione dei Fonografici italiani.

All’interno di Confindustria, AFI tutela gli interessi economici di 760 piccoli produttori e rappresenta quasi il 10% del panorama musicale italiano indipendente: se fosse una major, sarebbe la quarta per grandezza nel nostro Paese. E in occasione della visita in Italia di Mark Zuckerberg, co-fondatore di Facebook e attuale CEO di Meta, è tornata a puntare il dito contro quello che sarebbe “un quotidiano caso di pirateria legale”.

La musica che arriva da fuori

Da quel che si capisce, il punto del contendere sono i contenuti musicali che vengono condivisi su Facebook da altri siti e che su Facebook possono essere ascoltati: l’esempio è quello di una persona che posta all’interno di un video (o di una Storia, o di un reel) lo spezzone di una canzone presa da YouTube, senza che all’autore vengano corrisposti quelli specifici diritti di sfruttamento.

Ovviamente i discografici non chiedono il pagamento di ogni singolo brano, così come (per citare un caso simile) gli editori non chiedono il pagamento di ogni singola notizia condivisa sui social: lo scopo è raggiungere un accordo, ottenere una cifra forfettaria che in qualche modo riconosca il lavoro creativo che c’è dietro questi brani. Cerruti ha spiegato che “continuiamo a combattere con le lunghe e dispendiose procedure di reclamo online, che raramente hanno successo, non producendo quindi alcun effetto economico". Come detto, il problema ha effetti soprattutto sulla realtà italiana: “Siamo di fronte alla creazione di un sistema non concorrenziale che rende il nostro mercato disfunzionale e che favorisce le grandi compagnie - ha detto ancora Cerruti - che sottoscrivono con Meta accordi a livello internazionale, evadendo ogni responsabilità di natura economica e normativa a livello locale”.

Attenzione: questo non significa che Facebook non paga i diritti alla major. Enzo Mazza, presidente di Fimi, la Federazione dell'Industria musicale italiana, ha confermato a Italian Tech che "nel 2021 Meta ha versato alle case discografiche attive in Italia quasi 38 milioni di euro per l'utilizzo di brani musicali" e che "questi soldi sono più di quelli versati da YouTube". E però il punto sta proprio qui, nella disparità di trattamento: da AFI ci hanno rivelato di avere "detto a Facebook che siamo disposti ad accordarci per una cifra che si aggira intorno ai 5 milioni di dollari, una specie di condono per gli ultimi 10 anni di violazioni dei copyright", ma che "non siamo riusciti ad avere una risposta positiva".

Le accuse a Facebook Italia

L'altro problema è che non si riesce nemmeno ad avere una misura dell'ampiezza del fenomeno: "Abbiamo fornito a Facebook un elenco delle tracce che appartengono ai nostri assistiti - ci ha raccontato Cerruti - chiedendo che verificassero se in qualche modo erano state usate sulla loro piattaforma", ma "non abbiamo avuto alcuna risposta".

Oltre alla richiesta alle istituzioni di “tutelarci nei confronti di siti come Facebook, che godono di attenta considerazione da parte loro”, Cerruti non ha mancato di lanciare una frecciata alla filiale italiana del colosso di Menlo Park: “Abbiamo più volte cercato di sottoporre alla loro attenzione i danni economici che stanno arrecando alle piccole e medie imprese discografiche italiane, proponendo strumenti risolutori. Nulla è cambiato, se non la consapevolezza che la sede italiana della società è considerabile alla stregua di una azienda di pubbliche relazioni e che nulla può fare per proteggere l’economia del Paese che la ospita”.

La redazione di Italian Tech ha chiesto proprio a Facebook Italia un commento sulla vicenda: aggiorneremo questa pagina quando avremo la loro risposta.