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Startup

Gualandri (Soldo): "La bolla dei tecnologici è già scoppiata. Non c'è rimedio all'avidità"

Gualandri (Soldo): "La bolla dei tecnologici è già scoppiata. Non c'è rimedio all'avidità"
Intervista all'amministratore delegato della fintech londinese, già fondatore di Virgilio e Gioco Digitale: "Tra il 2000 e oggi ci sono molte analogie, il mondo è già cambiato ma ho l'impressione che non sia ancora chiaro a tutti"
5 minuti di lettura

“Il mondo è cambiato. E ho l’impressione che non sia ancora del tutto chiaro di quanto radicalmente sia cambiato”. Carlo Gualandri è fondatore e amministratore delegato di Soldo, startup fintech che ha fondato a Londra nel 2015. Dopo l'ultimo round di investimento di luglio 2021, Soldo ha raggiunto la valutazione di 1,7 miliardi di dollari. Gualandri è tra i pionieri dell’economia digitale in Italia.

Ha cofondato nel 1995 Matrix e Virgilio, lanciato Gioco Digitale (venduta nel 2015 per 115 milioni) e partecipato alla fase di startup di Fineco nel 1999. Ha vissuto da dentro il gonfiarsi e lo scoppio della prima bolla che ha riguardato le società tecnologiche, quella del 2000. E oggi è convinto che un’altra bolla sui tecnologici sia già scoppiata, con effetti che impareremo a conoscere nei prossimi mesi. 

 

Gualandri, siamo difronte a una nuova bolla dei tecnologici a distanza di 20 anni?

“Ci siamo dentro. La bolla è già scoppiata due o tre mesi fa. Fino a dicembre il settore tecnologico ha vissuto una fase poderosa di crescita sui mercati. I soldi a disposizione sembravano infiniti e sul mercato sono entrati attori che non conoscevano nulla delle aziende tecnologiche, ma avevano tantissima liquidità da investire. Sono state finanziate startup che ricevevano valutazioni miliardarie senza che nessuno si curasse di capire se dietro quelle società ci fossero i fondamentali per crescere, o un vero modello di business. Un po’ come successe nel 2000”.

 

E ora che è successo?

“E’ successo che i soldi sono finiti. Che quella liquidità non c’è più. E che le aziende tecnologiche che negli ultimi anni sono state finanziate con milioni di dollari continuano a bruciare cassa perché così hanno fatto finora inseguendo un approccio aggressivo sul mercato. Potevano farlo perché dopo ogni round di investimento si immaginava che ne sarebbero seguiti altri, su valutazioni ancora più importanti. Dopo la crisi dei subprime, l'economia ha vissuto per 15 anni di stimoli. E i tecnologici hanno guidato la crescita dei mercati azionari e degli investimenti. Ma oggi, tra stretta delle banche centrali, poca crescita e inflazione, non ci sono più le forze per continuare a sostenerne la crescita”.

 

Quali indizi le fanno essere sicuro che la bolla sia scoppiata?

“Basta guardare la valutazione delle società quotate al Nasdaq: da dicembre a oggi, quelle di società che fanno prodotti seri come Apple, Google e Amazon sono crollate (tra il 20 e il 30 percento del valore di mercato, ndr); le tecnologiche che si sono quotate nell’ultimo anno come Affirm sono arrivate a perdere il 90% del loro valore. Startup valutate miliardi cominciano a licenziare personale e a ridurre le ambizioni. Per non parlare di fondi che hanno investito in società tecnologiche come Softbank o Tiger, che hanno registrato perdite miliardarie”.

 

In che modo questo le ricorda quanto accaduto nel 2000?

“I meccanismi sono gli stessi. Allora però internet era una cosa ancora nuova e su questo settore si generò una follia che portò aziende a valutazioni miliardarie solo perché aggiungevano “.com” al proprio nome. Avevo poco più di trent’anni all’epoca. C’era una frase che veniva usata per descrivere il clima che si respirava all’epoca: long boom”.

 

Ovvero?

“E’ tutto bellissimo, il futuro va in una sola direzione, tutti crescono e cresceranno in maniera pazzesca. Questo clima era ben rappresentato dalla rivista americana Wired. Leggendola allora tutto sembrava perfetto. E’ in questo clima che si sono creati i presupposti per lo scoppio della dotcom: fiumi di soldi andavano in società che non avevano alcun presupposto per crescere, a volte nessuna idea per stare in piedi”.

 

Perché in 20 anni il mercato dei tecnologici non ha creato degli anticorpi per evitare che la storia si ripetesse?

“Vuole la mia opinione personale?”

 

Mi piacerebbe.

“Non esistono gli anticorpi all’avidità”.

 

Può spiegare?

“Questi meccanismi sui mercati si ripetono da sempre. E non riguarda solo i tecnologici. Nessuno ha mai imparato nulla dagli errori nel mondo della finanza. Non perché siano stupidi gli operatori, ma perché a nessuno frega nulla di imparare. Se un fondo guadagna una percentuale dai soldi investiti, l’interesse dei suoi manager è avere stipendi a tre zeri investendo soldi di altri. Se salta il fondo, hanno comunque guadagnato a tre zeri per un bel periodo. Penseranno: resterò senza lavoro, ma sono milionario”.

 

Questo però causa un danno, ai fondi, ai risparmiatori.

“Visto in prospettiva storica, è un incidente di percorso. Un sacco di gente perderà soldi, succede, è già successo. Ma in questo processo ci sono anche elementi positivi”.

 

Quali?

“Il mercato è come se si ripulisse da società inutili, startup sopravvalutate, idee senza futuro. Come è successo dopo il 2000, molte società falliranno, molti si faranno male, ma nasceranno nuove aziende e altre si consolideranno. Nasceranno altre Google, altre Amazon, mentre le follie come Pet.com ai tempi della dotcom spariranno”.

 

In che settore prevede che possano nascere le prossime?

“La mia società si occupa di fintech: ecco, credo la rivoluzione della finanza tradizionale fatta da quella tecnologica non si sia ancora del tutto compiuta. Ma c’è anche il metaverso, per quanto sia un termine che per ora significa poco e appare più marketing che altro. Eppure si muove nella prospettiva che il consumo di internet sarà sempre più immersivo e credo che si andrà in quella direzione”.

 

Quali spariranno?

“Molte innovazioni emerse negli ultimi anni non hanno senso. O semplicemente non sono sostenibili. Ho proprio bisogno di un servizio che mi fa ordinare le patatine in 10 minuti e me le porta a casa? Non è un caso che a soffrire tra le prime in modo forte di questa nuova fase del mercato siano startup come Gorillas e Getir. Uber per esempio ha bruciato tantissima cassa prima di accorgersi che era il momento di fatturare. Ma qual è l’innovazione di quella che viene chiamata gig economy? Nel caso di Uber il solo fatto di chiamare un taxi via app. Per non parlare delle migliaia di biciclette a noleggio finite in discarica. Il mercato ha già cominciato a liberarsi di società che non avevano nulla di sostenibile”.

 

C’è una differenza tra il 2000 e oggi?

“C’è, ed è il ruolo dei venture capitalist. Loro oggi stanno seduti su miliardi. E non è che possono dire ai propri investitori: be’, abbiamo sbagliato, riprendetevi i soldi. Lì i soldi ci sono ancora. Ci saranno mesi, forse anni in cui non li metteranno in nuove aziende innovative, aspetteranno che il mercato si assesti, che la bolla si sgonfi. Tenga conto che al momento nessuno ha una formula nuova per valutare queste società. Ma la situazione si placherà e riprenderanno a investire”.

 

 

In che modo cambierà il loro approccio?

“Probabilmente non ci saranno più i criteri di prima. Niente più finanziamenti a fiumi per modelli di business che non si sa dove vogliono andare a parare. Diventeranno criteri più normali, più vicini alla realtà”.

 

Perché finora non si è fatto la cosa più normale, la cosa più aderente alla realtà?

“Il percepito ritarda sempre un po’ rispetto a quello che succede nella realtà”.

 

Un po’ come se nella fase di bolla si vivesse in un sogno.

“Allo scoppio della dotcom ci siamo risvegliati da un sogno, dalla convinzione che tutto fosse meraviglioso”.

 

Alcuni venture capitalisti italiani ritengono che questa nuova fase possa essere una buona notizia per le startup italiane. Concorda?

“L’insularità delle startup italiane le ha protette dalle mega valutazioni. Sono rimaste piccole, hanno ottenuto pochi round di investimento ma con quei soldi sono riuscite a crescere sul proprio mercato senza miliardi da sprecare. Oggi sono più protette, potrebbero giocarsi una nuova partita”.

 

Molte però lamentano che comunque i soldi investiti sono pochi, difficile crescere così, difficile anche consolidare il proprio business.

“Questo è vero, i fondi di venture capital italiani sono piccoli e fanno pochi round di investimento. E poi c’è anche l’incognita che ti arrivi una grossa società sul mercato e cancella quanto di buono hai fatto. Pensa a quelle startup italiane del food delivery sparite quando in Italia sono arrivate Deliveroo e Glovo. Finora queste società hanno potuto fare il bello e il cattivo tempo sul mercato perché avevano enormi risorse di liquidità. Ma quel tempo è finito. Parafrasando una frase di Marc Andreessen al tempo della dotcom, è arrivato un nuovo inverno nucleare di internet”.

 

Twitter: @arcamasilum