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Lo studio

Europa League, perché la Roma ha perso ai rigori (secondo la scienza)

Europa League, perché la Roma ha perso ai rigori (secondo la scienza)
(reuters)
Non è solo una questione di sfortuna o di capacità tecniche. Uno studio durato cinque anni spiega quali sono i fattori che influenzano le squadre - e i loro calciatori - nel momento in cui una partita di prestigio si decide dal dischetto
3 minuti di lettura

Si può ragionare a lungo sulla crudeltà dei calci di rigore. Oppure si può provare a studiarli. Si può provare, insomma, a capire se esistono fattori in grado di influenzare il loro esito.

Geir Jordet, professore della Norwegian School of Sport Sciences, ha dedicato cinque anni della sua vita a dimostrare che i tiri dal dischetto non sono una semplice “lotteria”. La fortuna, a quanto pare, spesso non c’entra.

Gli studi di Jordet riaffiorano ogni volta che un torneo importante si decide con una serie di penalty. È il caso, per esempio, di Roma-Siviglia, la finale di Europa League che si è giocata a Budapest e che ha visto trionfare la squadra spagnola dopo i calci di rigore, appunto. È finita 4-1 (1-1 d.t.s.), con i calciatori del Siviglia che hanno realizzato tutti i loro rigori e i romanisti, invece, che hanno sbagliato due tiri consecutivi, il secondo e il terzo.

Gli errori fatali, per i giallorossi, sono stati quelli di Gianluca Mancini e di Roger Ibanez. I profili di questi due calciatori rispondono, a prima vista, all’identikit di Jordet. Il professore norvegese sostiene, nelle sue ricerche, che nelle competizioni internazionali di alto livello, quando la pressione è elevata, sono più inclini a sbagliare un rigore i difensori, con un’età superiore ai 23 anni e schierati fin dal primo minuto del match.

Mancini e Ibanez, in effetti, sono due difensori. E hanno giocato tutti i 120 minuti della finale di Europa League. Il primo inoltre ha 27 anni. Il secondo ne ha 24. Mourinho aveva a disposizione calciatori senz’altro più “freschi” e allo stesso tempo considerati “rigoristi”: Belotti, El Shaarawy e Wijnaldum. Non sappiamo se uno o due di loro facessero parte della lista preparata dal tecnico alla fine dei tempi supplementari. La Roma non ha avuto la possibilità di battere altri rigori dopo gli errori di Mancini e Ibanez.

L’analisi di Geir Jordet si basa sull’osservazione di “ogni singolo calcio di rigore” calciato in Coppa del Mondo, negli Europei e in Champions League dal 1976 al 2021. Sulle interviste di 25 calciatori che hanno disputato una di queste competizioni - e che hanno calciato un rigore - e sui test effettuati su 15 squadre di alto rango. Parliamo di un'analisi molto ampia che, nonostante non riguardi da vicino l'Europa League, può dare elementi utili su cui riflettere ogni volta che si assiste a un incontro di altissimo livello deciso dai tiri dal dischetto.


La conclusione, afferma ironicamente Jordet, non è una sorpresa: la rincorsa di un calcio di rigore inizia nella testa di chi lo sta per battere.

Sorprende, invece, apprendere che lo status di un calciatore - definito dai trofei vinti in carriera - ha un impatto negativo sulla sua performance dal dischetto. I campioni analizzati, da Maradona a Messi, passando per Roberto Baggio e Cristiano Ronaldo, prima di ricevere un prestigioso premio individuale realizzavano l’89% dei rigori calciati. Una volta messo in bacheca il trofeo, la percentuale è scesa al 65%.

Geir Jordet, inoltre, sostiene che i “fantasmi del passato” incidono sull’esito dei calci di rigore. Se una nazionale, o un club, ha perso un importante trofeo in passato per colpa dei tiri dal dischetto, c’è una probabilità più alta che questo si ripeta.

Volendo applicare questa regola, sostenuta dai dati, a Roma-Siviglia, si può senz’altro dire che la squadra romana ha una cicatrice evidente: la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool, proprio ai rigori, nel 1984. Il Siviglia, invece, può contare su una tradizione super favorevole, avendo vinto proprio ai rigori quattro delle sette coppe europee collezionate finora dal club.

La regola dei “fantasmi”, dice Jordet, vale anche per chi non ha vissuto l’episodio che tormenta una determinata tifoseria. Esistono ovviamente le eccezioni: anche l’Italia, che ha perso drammaticamente la finale col Brasile nel 1994 per un rigore sbagliato da Baggio, ha saputo scacciare i suoi fantasmi nel 2006, col tiro dal dischetto di Fabio Grosso che in quell’occasione ha regalato agli azzurri la Coppa del Mondo.

Anche la “preparazione” di un calcio di rigore - sostiene Jordet - influisce sulla sua trasformazione. Chi affretta il tiro, posizionando velocemente la palla sul dischetto e piazzandosi in fretta per calciare, ha meno possibilità di segnare di chi invece si prende più tempo prima di battere il penalty.

Un’altra ricerca, che ha tra i principali firmatari ancora Jordet, sottolinea quanto fosse complicato il compito di Ibanez, dopo l’errore del compagno di squadra Mancini, e quanto invece fosse agevolato Gonzalo Montiel, l’ultimo rigorista del Siviglia. Solo nel 62% dei casi è stato trasformato un rigore fondamentale per non perdere la partita. Mentre è andato a segno il 92% di chi ha calciato per vincere immediatamente un incontro.

I dati, tuttavia, non potranno mai tenere conto dell’imprevedibilità che caratterizza l’essere umano. Del suo genio ma anche della sua follia. I dati, e la scienza, non potranno mai prevedere il “cucchiaio” di Francesco Totti contro l’Olanda, nella partita più emozionante degli Europei del 2000. Né potranno spiegare il rigore battuto da Lucas Ocampos, calciatore argentino e attaccante del Siviglia, che contro la Roma, in una importante finale europea, ha battuto un rigore (quasi) no-look, volgendo altrove il capo un istante dopo aver tirato la palla verso la porta difesa da Rui Patricio.