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Un caffè pagato in Bitcoin

Un caffè pagato in Bitcoin
3 minuti di lettura

Nell’estate del 2014 mi trovavo a Sunnyvale, nella parte meridionale della Silicon Valley, a un paio di miglia dall’allora headquarter di Apple. Più modestamente mi trovavo in un acceleratore di startup e avevo bisogno di un buon caffè, laddove il concetto di buon caffè può essere certamente diverso a quelle latitudini rispetto alle nostre.

Ad ogni modo, entro nella caffetteria, ordino il mio black coffee e, alla cassa, vedo un cartello scritto a mano: “We accept Bitcoin”.

Il caffè non era male e il barista, un ragazzo poco più che ventenne, simpatico. Paghi in Bitcoin?, mi fa con un sorriso complice. Eh no, rispondo, non ne posseggo. E lui, di rimando: vuoi farmi credere che ancora non possiedi Bitcoin? E come mai? La conversazione andò avanti per diversi minuti, nel corso dei quali gli spiegai che la mia conoscenza del Bitcoin era più che superficiale, che non mi ero mai messo veramente a studiare la cosa e che in giro si sentivano solo brutte storie su quella strana moneta digitale.

La fede di quel giovane barista nel Bitcoin era incrollabile e, in quattro e quattr’otto, me ne magnificò le caratteristiche facendomi riflettere sui benefici che se ne potevano trarre. La conversazione si chiuse con un perentorio “Non aspettare ancora, uno come te non può andare in giro dicendo che non ha Bitcoin, comprane subito per 10 o 20 mila dollari, dammi retta”.

Non lo feci.

Quelli della mia generazione sono cresciuti con frasi del tipo “quando un tassista o un barista ti dicono che devi acquistare certe azioni in borsa, vendo tutto e scappa”. Pensai che fosse ancora più vero per una cosa strana come il Bitcoin e lasciai perdere.

In quel periodo il Bitcoin veniva acquistato a circa 600 dollari. Fate voi i conti. E, diversamente da me, non sottostimate un barista in gamba. Nel 2017 ricevetti in regalo un libro sulla blockchain. Lo lessi e ci capii poco o nulla. Era effettivamente molto tecnico, e io non sono un nerd. Decisi di rileggerlo perché non potevo accettare di non capire meglio una cosa che ero certo sarebbe stata rilevante. Lo rilessi, capii meglio ma continuavo a sentirmi ancora una specie di pesce fuor d’acqua. Quel libro me lo regalò Federico Nitidi, oggi uno dei massimi esperti italiani di DeFi e mio socio in Anubi Digital.

Un paio di anni dopo nell’ufficio accanto al mio, nell’incubatore del Politecnico di Torino, arrivò un gruppo di ventenni con la stessa “luce negli occhi” del barista della Silicon Valley. Avevano appena fondato Young Platform, un exchange crypto pensato per i loro coetanei ai quali offrire una piattaforma per comprendere la rivoluzione delle criptovalute e per acquistarle. Avevano idee chiare e lavoravano giorno e notte: andranno lontano, mi dissi. Tre anni dopo sono l’exchange leader in Italia e il valore dell’azienda è decuplicato. Nell’estate del 2020, infine, stavo assistendo a un fenomeno in qualche modo storico: diverse società quotate in America stavano acquistando Bitcoin come strumento di tesoreria aziendale, le banche d’affari stavano rilasciando report positivi sul Bitcoin, i clienti affluenti delle banche private improvvisamente volevano Bitcoin e si stavano chiedendo se per loro non sarebbe stato più costoso starne fuori.

La creatura di Satoshi Nakamoto, nata per fare la rivoluzione, era improvvisamente diventata mainstream. Certo, era ancora una goccia nel mare. Se è per questo, tutto il mercato crypto è ancora una goccia nel mare anche oggi se rapportato al valore degli asset globali, ma il segnale era chiaro: le crypto erano sdoganate e un nuovo, potenzialmente enorme mercato stava nascendo. Mi ritrovai a pensare che questo nuovo grande mercato sarebbe diventato tale solo a talune condizioni. La prima è che bisognava trovare un modo per custodire le criptovalute in maniera semplice e sicura. La seconda riguardava la possibilità di generare del guadagno anche durante la fase di possesso delle medesime, altrimenti si finiva per fare come una mia vecchia zia che acquistava le azioni delle Generali e della Fiat, le metteva nel cassetto per rivenderle quando il loro valore sarebbe risultato più alto. Non vogliamo mica fare tutta questa rivoluzione per ritrovarci al punto in cui si trovava mia zia? Ne parlai con Diego D’Aquilio, rientrato in Italia dopo alcuni anni a Londra nel Fintech e, soprattutto, dopo aver partecipato alla ICO di Ethereum. Scoprimmo di condividere la visione e, pochi giorni dopo, l’idea di fondo che avrebbe fatto nascere Anubi Digital, di cui Diego è CEO dal primo giorno, era sbocciata.

E così, sette anni dopo quel caffè non pagato in Bitcoin, e ancora una volta in uno spazio per startup, mi ritrovavo a intraprendere, finalmente, in questo promettente mercato, peraltro ancora tutto da inventare. Perché la maggior parte delle persone che incontro ogni giorno, e mi riferisco principalmente ad operatori del mondo della finanza classica, ammette esplicitamente che di asset digitali ci capisce ancora poco. Laddove alcuni vedono in questo un problema, io ci trovo una bella opportunità, dove la comunicazione assume un ruolo fondamentale. Ecco perché è nato questo blog.