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Dopo Telegram finiranno i “sequestri per oscuramento”?

Dopo Telegram finiranno i “sequestri per oscuramento”?
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La Procura della Repubblica di Torino ha disposto il sequestro di una chat Telegram di agomento No Vax frequentata da oltre 40.000 iscritti. Per metterlo in atto il magistrato ha preannunciato una rogatoria internazionale perché Telegram è al di fuori della giurisdizione italiana, e la magistratura non ha il potere di emettere ordini a carico di soggetti stranieri. Tanto è vero questo, che in attesa di formalizzare la rogatoria la Procura di Torino ha inviato il provvedimento a un account di Telegram chiamato “collaborazione volontaria”, evidentemente sperando in un “gesto di responsabilità” della piattaforma.

La notizia, di per sé, non dovrebbe fare notizia perché quando è necessario eseguire provvedimenti penali all’estero è indispensabile seguire la strada della rogatoria. Tuttavia, il caso di Torino è l’eccezione (corretta) ad una regola (sbagliata) che viene continuamente applicata dalle procure italiane e, a volte, direttamente dalla polizia giudiziaria: quella del “sequestro per oscuramento” resa famosa dieci anni fa dal caso The Pirate Bay.

Di fronte alla necessità di sequestrare il famoso motore bit torrent e alle difficoltà (reali o supposte) di rivolgersi alle autorità svedesi, nel 2008  la Procura della Repubblica di Bergamo concepì una bizzarra interpretazione delle norme sui sequestri (poi confermata addirittura dalla Cassazione) in base alla quale ordinare agli Internet Provider di intercettare e bloccare le query DNS degli utenti italiani verso determinati nomi a dominio era l’equivalente di sequestrare un server.

Per quanto paradossale e tecnicamente priva di senso, questa interpretazione è diventata la standard operating procedure degli inquirenti italiani e gli operatori di telecomunicazioni sono ancora oggi continuamente destinatari di provvedimenti di “oscuramento” di risorse di rete localizzate all’estero, inclusi —tanto per essere chiari— anche canali Telegram.

Se confrontiamo lo stato di fatto con il caso torinese, è inevitabile domandarsi allora chi abbia ragione fra la Cassazione e la Procura di Torino e dunque quale sia la scelta giuridicamente corretta anche e soprattutto a tutela degli utenti della Rete.

Eseguire un sequestro di dati o altre informazioni in modo “chirurgico” —cioè andando sul luogo per acquisire i dati e far cessare il servizio— è senz’altro il modo corretto di operare perché in questo modo si colpiscono gli indagati e si interrompe la prosecuzione del reato. Meno accettabile —anzi, inaccettabile— è intercettare indiscriminatamente il traffico di tutti gli utenti italiani mappando quelli che si collegano a determinate risorse di rete (non necessariamente per fini criminali, come dimostrano gli articoli scritti dai giornalisti che si sono “infiltrati” nei gruppi No Vax). Ad  oggi non risulta che la magistratura o le forze di polizia raccolgano i numeri IP degli utenti che tentano una connessione a determinate risorse per poi denunciarli e indagarli (o quantomeno schedarli). Tuttavia nulla vieta che ciò possa accadere e l’unico modo per essere certi del contrario è smetterla con gli “oscuramenti” per seguire la strada indicata dalla Procura di Torino con l’annuncio della richiesta di rogatoria internazionale.

Ora, per onestà intellettuale non bisogna nascondersi dietro un dito. È chiaro che la rogatoria è uno strumento complesso da gestire e, soprattutto, pensato in tempi e per tempi del tutto incompatibili con la numerosità, velocità e la dislocazione geografica degli eventi che si verificano in rete.

Difficoltà e lungaggini, tuttavia, non possono essere la giustificazione per forzare l’interpretazione di norme che non dicono quello che la giurisprudenza ha voluto, a tutti i costi, far loro dire. Dunque, se manca lo strumento per sequestrare velocemente piattaforme o contenuti localizzati all’estero, che lo si crei, invece di creare degli strappi nell’interpretazione del sistema delle indagini penali.

Il problema del come fare indagini in contesti transnazionali esiste, è reale e non è facile da risolvere. Ci sono già tuttavia degli strumenti come l’ordine di indagine europeo che consente alle procure di uno Stato membro di ottenere collaborazione dagli altri con una procedura che, se non fosse gestita anche con la carta, sarebbe anche sufficientemente snella. Modifiche analoghe dovrebbero riguardare le rogatorie (almeno quelle relative a dati e contenuti) e le procedure interne agli uffici investigativi per la gestione di questi adempimenti. Basterebbe, quindi, relativamente poco per ottenere risultati efficaci nel rispetto delle regole, ma questo non accade.

Spiegare nel dettaglio il perché ci troviamo in questa condizione sarebbe complesso, ma una constatazione si può certamente fare: l’arretratezza culturale e tecnologica, nel mondo della giustizia, non è più tollerabile.