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La querelle fra Macron e la governance sui nomi a dominio

La querelle fra Macron e la governance sui nomi a dominio
(reuters)
3 minuti di lettura

Alla fine del 2021 i media francesi diffondono la notizia di un’azione legale avviata da Republique En Marche, il partito fondato dal presidente francese Emmanuel Macron, contro un editore che pubblica vignette satiriche sul dominio enmarche2022.fr. La lite riguarda la titolarità, o meglio la modalità di utilizzo di un nome a dominio - enmarche2022.fr, appunto - che il partito di Macron considera pregiudizievole per la propria immagine in vista delle prossime elezioni politiche.

A differenza delle tradizionali vertenze di cybersquatting nelle quali si discuteva essenzialmente di “scippo” di marchi e concorrenza sleale, il caso francese riguarda non tanto il dominio in sé ma la satira che bersaglia Macron tramite un nome evocativo e ispirato al partito del presidente. La tesi di Republique en Marche è, dunque, che un elettore in cerca di informazioni sul partito, sul programma e sui candidati possa imbattersi nel sito galeotto e dunque essere negativamente influenzato dai suoi contenuti critici. La difesa dell’editore è basata sul “diritto al diritto alla critica” e su quello alla libertà di espressione.

A giudicare, tuttavia, non sarà un’alta corte e nemmeno un tribunale locale ma l’Association française pour le nommage Internet en coopération (Afnic), l’ente privato designato per legge a gestire i “ccTLD” .fr e che potrà decidere di togliere il dominio ad ANT Éditions riassegnandolo a Republique En Marche.

Fin qui, la cronaca; di seguito l’analisi.

La vicenda francese propone ancora una volta il tema tanto cruciale quanto trascurato della governance sui nomi a dominio (e sui numeri IP, ma questo è un altro discorso) e dell’impatto sul sistema dei diritti di cittadini, imprese e istituzioni. In sintesi: chi registra un dominio (incluse le istituzioni) non ne diventa proprietario ma solo “assegnatario”. Dunque, un nome a dominio può essere revocato, cancellato o addirittura “perso” al di là del diritto che un soggetto possa vantare sul nome in questione.

Fino a qualche anno fa, quando l’internet era poco più di una curiosità per geek, poteva avere senso che il controllo sugli indirizzi fosse gestito da entità private al di fuori di qualsiasi controllo diretto da parte dello Stato. Poteva anche essere pragmaticamente accettabile che controversie di proprietà industriale e intellettuale su marchi, nomi e titoli di opere protette fossero decise al di fuori delle aule di giustizia.

Ora, tuttavia, che i nomi a dominio incidono direttamente su diritti fondamentali e libertà politiche (per non parlare del funzionamento dei servizi pubblici e privati) c’è da chiedersi se sia ancora possibile lasciare la governance sui nomi a dominio nelle mani di soggetti non istituzionali.

In Italia il tema è particolarmente rilevante perché mentre risorse importanti come gli archi di numerazione telefonica sono regolati da normative specifiche e l’erogazione di servizi basati sul loro utilizzo è soggetta ad autorizzazione del MISE, questo non accade per i nomi a dominio. Il neonato Codice delle comunicazioni elettroniche  addirittura limita i poteri di Mise e Agcom che, secondo l’articolo 98-sexies, sono obbligate a collaborare e coordinarsi con le organizzazioni internazionali (non governative, n.d.a) che decidono in materia.

Ancora oggi, dunque, i domini italiani sono gestiti in sostanziale autonomia dal “Registro” —in realtà, un progetto scientifico dell’Istituto di informatica e telematica del Cnr di Pisa. Esso si riserva la “titolarità” di ogni nome a dominio, decide chi sono i soggetti che possono consentirne l’assegnazione (i “registrar”), mantiene il potere di revocare queste assegnazioni in nome di regole autodeterminate ma questo non cambia la natura del problema o —se vogliamo— della scelta politica di fondo sulla desiderabilità o meno di un controllo diretto dell’esecutivo su un cardine della transizione digitale. Quale che sia il modello ipotizzabile (gestione diretta di Mise o Agcom, creazione di un società ad hoc partecipata dagli operatori e dagli Isp oppure attribuzione della gestione tecnica ad una fondazione o un soggetto di alto profilo) un punto rimane tuttavia centrale e preliminare: stabilire per legge che l’internet governance è “affare di Stato”. Il primo passo è stato fatto con la Legge 133/19 che ha messo nelle mani della Presidenza del Consiglio il “kill switch” per spegnere la rete italiana in caso di pericoli per la sicurezza nazionale, ma non basta. La resilienza delle reti pubbliche di comunicazioni passa anche per il controllo sui nomi a dominio.

L’Istituto di informatica e telematica ha dato un grande contributo allo sviluppo dell’internet italiana e il Paese ha un gran debito nei confronti delle persone che in questi anni hanno fatto funzionare il “Top Level Domain” .it, ma ora è il momento di cambiare.

L’internet del futuro non è più quella di un tempo, e il tempo dei tecnici è oramai passato.