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Il complicato rapporto tra conoscenza e crimine

Il complicato rapporto tra conoscenza e crimine
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Tipicamente, ogni volta che si associano le parole “internet” e “criminalità” si producono due effetti uguali e contrari. Da un lato ci sono quelli che in nome del politically correct parlano di “opportunità ma anche di rischi”, per poi concentrarsi soltanto sui secondi e invocare pene draconiane e controlli di massa. Dall’altro, ci sono i sostenitori, altrettanto radicali, della “libertà della rete” ad ogni costo, che pavlovianamente “insorgono” (ma solo con qualche messaggio) ogni volta che “Internet” —scritto con la maiuscola e l’articolo, come fosse un nome proprio— viene “demonizzato”. Fra i due estremi, come sempre dalle nostre parti, tante posizioni intermedie che consentono di buttarsi da una parte o dall’altra a seconda di convenienze e opportunità.

Formulato in questi termini, il dibattito ricorda le interminabili querelle del benerito Processo del Lunedì, nelle quali —anticipando genialmente le future dinamiche di comunicazione— non importava arrivare a un punto ma contava dibattere all’infinito sul nulla, fino alla prossima volta.

In realtà, per tornare al punto, il dibattito sulla pericolosità o meno del “signor Internet” è privo di senso. Sono gli esseri umani a commettere atti illeciti, non —con buona pace degli esperti di AI— le macchine o i software. Dunque, dal punto di vista dei fenomeni criminali, l’uniche domande che ha senso formulare riguardano la criminogenicità di un intero ecosistema tecnologico e non della  singola, veneranda suite TCP/IP che è solo una parte di un fenomeno molto più articolato e complesso e nemmeno peculiare delle tecnologie dell’informazione.

Senza la diffusione di prodotti e tecnologie vulnerabili by default (come dimostrano le innumerevoli segnalazioni su software e piattaforme di qualsiasi tipo), senza l’abbassamento del livello di conoscenza necessario per commettere illeciti, senza l’adozione di prassi commerciali disinvolte anche in nome del “diritto alla privacy” sarebbe molto più complicato delinquere per i “non addetti ai lavori”. A questo bisogna anche aggiungere l’effetto di comportamenti indotti dal marketing Big Tech, come l’essere costantemente collegati anche quando non serve, migrare qualsiasi attività “sul cloud”.

Se a questi fenomeni aggiungiamo la diffusa tendenza a delinquere dell’individuo, è abbastanza semplice capire perché aumenta il numero di persone che intraprendono carriere criminali.

Certo, per riprendere un paragone molto in uso, il gestore di un’autostrada e il fabbricante di automobili non sono responsabili se vengono utilizzati per spostare droga e armi. Tuttavia, è un fatto che droga e armi circolano sull’autostrada, come è un fatto che la disponibilità di automobili sempre più robuste e veloci agevola il “lavoro”. Allo stesso modo, l’esistenza di servizi della società dell’informazione non implica che chi li eroga —quantomeno a livello di trasporto e attività connesse— sia responsabile per l’uso che ne fanno gli utenti. Tuttavia, non bisogna chiudere gli occhi di fronte a una questione più generale che non riguarda soltanto le tecnologie dell’informazione: la conoscenza genera crimine. Il Sapere, di qualsiasi tipo esso sia, porta con sé la possibilità di un impiego antisociale. Quanto più si diffonde, tanto più diventa fruibile anche da chi, diversamente, non avrebbe mai potuto usarlo per fare danni.

Questa consapevolezza è già presente, da qualche tempo, nelle strategie geopolitiche di accesso alla formazione universitaria. USA e alcuni paesi UE hanno iniziato a limitare l’accesso di studenti provenienti da paesi “non amici” a determinati ambiti accademici anche se non afferenti a settori critici o classificati.

Le conseguenze concrete di questa scelta non sono prevedibili e non si vedranno nel breve periodo, ma nel frattempo sono stati stabiliti due principi: che il sapere è pericoloso, e che non può essere veramente libero. Piuttosto che interrogarsi sul trito e ritrito “bilanciamento fra privacy e sicurezza” varrebbe la pena di riflettere sul se e su quanta libertà di sapere siamo disposti a cedere per limitare l’uso criminale della conoscenza. Il tema è estremamente delicato perché troppo facilmente si presta a strumentalizzazioni, ma continuare a ignorarlo non sarebbe una scelta molto intelligente.