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Smettere di vivere nella fantascienza per tornare a comprendere la realtà. Oppure no?

Smettere di vivere nella fantascienza per tornare a comprendere la realtà. Oppure no?
(ansa)
2 minuti di lettura

L’uscita di una serie ispirata a un romanzo di William Gibson è l’occasione per tornare ad riflettere sulle conseguenze causate dalla rottura della barriera fra fantascienza e realtà. Fino a quando Metaverso, AI, realtà aumentata e i loro antesignani —come il “ciberspazio”— rimangono creazioni letterarie, esperienze culturali o costosi “videogiochi”, poco male. Molto di male, invece, quando concetti del genere vengono “creduti veri” e posti alla base di scelte politiche e giuridiche in grado di condizionare la vita vera delle persone come accade nell’incredibile “Risoluzione” del Parlamento Europeo sulla necessità di dare valore giuridico alle “Tre leggi” create da Isaac Asimov per il suo “Ciclo dei Robot”, nell’altrettanto culturalmente sbagliata bozza di regolamento sull’AI predisposta dalla Commissione Europea o nella recente idea di emanare “leggi speciali per il metaverso” che nulla è se non un normale servizio della società dell’informazione e come tale soggetto alla già sovrabbondamente normativa esistente.

I fattori che hanno causato l’abbattimento del muro fra realtà e finzione sono diversi e operanti a diversi livelli. Alla base, c’è l’insopprimibile desiderio delle persone di vivere nel “futuro”, di scappare dalla realtà e di trasformare in diritto le proprie pretese individuali. Queste pulsioni sono abilmente sfruttate da Big Tech grazie all’infantilizzazione dei comportamenti umani illudendo i propri clienti che poter comprare tutto, poter dire qualsiasi cosa pretendendo di essere ascoltati e avere l’ultimo orologio “intelligente” significhi “essere innovativo”.

Su questo plateau fatto di necessità di mercato si appoggiano i pilastri dell’impalcatura fantapolitica sulle “nuove tecnologie” (che però oramai si avviano verso la quarantina e dunque si dovrebbero piuttosto chiamare “diversamente giovani”).

Un pilastro è certamente l’incompetenza della classe dirigente, anche comunitaria, che in una inarrestabile coazione a ripetere  guarda sistematicamente il dito e nemmeno si accorge se da qualche parte ci sia la Luna. È il caso—tanto per fare qualche esempio— della direttiva caricabatterie, dell’incredibile dibattito nazionale sulla “rete unica” che va avanti dai tempi del “Piano Rovati” o dell’allucinante e allucinatoria retorica sulla “giustizia predittiva” che nel silenzio della società civile si sta diffondendo nel mondo della giustizia anche in Italia. Tutte evidenze, queste, del fatto che gli obiettivi politici e regolamentari sono determinati altrove e che parlamenti e governi sono ridotti ad una semplice funzione esecutiva.

Il secondo pilastro è la percezione diffusa, nei media generalisti e negli intellettuali, che si possa parlare di argomenti complessi senza una preparazione specifica. Si moltiplicano (più o meno) vecchi saggi e nuovi esperti che pretendono di spiegare fenomeni molto complessi basandosi, quando va bene, soltanto sulla loro limitata conoscenza del modo in cui si pubblicano messaggi su un social network o “drammatizzando” —nel senso di trasformare in racconto— le storie di quelli che all’epoca erano considerati nerd o meglio, “sfigati” e che invece hanno cambiato il mondo.

Il terzo pilastro, meno evidente ma altrettanto solido, è la spregiudicata strategia delle strutture di consulenza grandi e piccole, sempre alla ricerca di “nuovi” problemi da “risolvere” —pagando, s’intende. Dunque, via libera al diluvio di bollettini, studi e white paper per dimostrare di essere cutting edge e di offrire “soluzioni” a problemi mai visti (ma solo perché ci si è girati dall’altra parte). Poco importa se il costoso progetto per la “virtualizzazione della customer experience” o per il “blockchain-powered payroll management” faranno la fine del Vasa. Ciò che conta è il flusso finanziario che fa muovere il processo, non il risultato.

La soggettivizzazione dell’algoritmo, la “società delle macchine” il “dominio delle piattaforme” sono la scusa ipocrita per sottrarsi alla propria responsabilità individuale, scaricando la colpa su maligne divinità pagane contro le quali nulla può il povero e indifeso essere umano.

Aquesta strumentale autoassoluzione collettiva ci si può opporre soltanto in un modo: ricordando che dei fatti umani risponde chi li commette, non un “avatar” o un software, non importa quanto complesso.

Adottare questo semplice criterio abbatterebbe tutta la sovrastruttura in cartongesso che nasconde i problemi irrisolti che nessuno vuole risolvere sul serio, dalla responsabilità dei produttori di software, alla ineluttabilità del controllo statale di massa, al fallimento della narrativa dei “diritti digitali” e alla perdita di ruolo degli Stati nella definizione e tutela degli interessi nazionali.

A ripensarci, tuttavia, di fronte a questioni del genere non stupisce che la reazione sia di preferire la fantascienza. Questa, almeno, ha l’innegabile vantaggio di essere coniugata al tempo futuro quando i problemi saranno un problema di qualcun altro, cioè di chi rimarrà con il cerino in mano senza la possibilità di darlo a qualcun altro.