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Il problema del cookie wall non è il cookie wall

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3 minuti di lettura

Le reazioni provocate dalla scelta adottata da alcune testate online di condizionare la fruizione dei contenuti prima gratuiti al consenso al trattamento di dati (non personali) ha suscitato proteste fra gli utenti e l’annuncio di un approfondimento da parte del Garante (dal quale, ma questa è un’altra storia, ancora si attende una risposta sulla questione della possibilità per le autorità americane di chiedere dati su cittadini europei localizzati nella UE).

Tanto rumore per nulla, verrebbe da commentare citando il Bardo, dal momento che da ventidue anni lo stesso Garante dei dati personali e quello della concorrenza e del mercato hanno sostanzialmente riconosciuto la legittimità, in astratto, del “dati in cambio di servizi”. Inoltre “recentemente”  - per i tempi giudiziari - la sentenza numero 17278/2018 della prima sezione civile della Corte di cassazione ha stabilito il principio di diritto secondo il quale “l'ordinamento non vieta lo scambio di dati personali, ma esige tuttavia che tale scambio sia frutto di un consenso pieno ed in nessun modo coartato.”

Nel caso dei quotidiani online, poi, nemmeno esiste un diritto dell’utente alla fruizione gratuita di un contenuto e i giornali sono quindi perfettamente legittimati a chiedere un corrispettivo in moneta oppure - come accade -  in cookie che, per di più, come detto, non necessariamente consentono il trattamento di dati personali.

È dal 2016, infatti, che la Corte di giustizia UE ha stabilito che un IP è dato personale solo quando identifica una persona fisica. Dunque, si comprende bene che quando - per rimanere in casa - mi collego a Repubblica.it senza inserire le credenziali, al più la piattaforma di analytics potrà generare un fingerprint del sistema che sto utilizzando e associarlo all’interazione con il sito, ma non potrà certo sapere chi ci sia dietro un computer che, per di più, esce in rete con il NAT (cioè non con l’IP interno assegnato alla specifica macchina). Quindi, a prescindere dal consenso, il giornale non starebbe trattando dati personali perché, banalmente, non ha la minima idea di chi io sia.

Certo, nel caso Caffeine Media (che ha dato la stura alla questione Google Analytics) il Garante dei dati personali ha forzato la lettura del GDPR mettendo sullo stesso piano il fingerprint e l’IP di un utente anonimo che fruisce di contenuti online senza registrazione o altre forme di identificazione e quello che, invece, si registra e dunque fornisce ulteriori informazioni su se stesso. Applicando questa discutibile interpretazione concepita dal Garante italiano si dovrebbe concludere che l’uso del cookie wall sia soggetto alla normativa in questione. Ma, allora, si dovrebbe anche riconoscere, per le ragioni già spiegate, che si tratta di attività astrattamente legittime e dunque non meritevoli di particolare attenzione o stigma.

Non dubito che un esercizio di bizantina esegesi normativa da parte delle autorità possa giustificare letture diverse e draconiane, ma questo è il classico problema del diritto, che è “fatto” da chi ha il potere di imporlo e non dal confronto razionale di tesi diverse, valutate sulla base della teoria dell’interpretazione.

Al di là di questi aspetti, tuttavia, il tema “dati in cambio di servizi” pone una questione molto più seria: l’effettiva sostenibilità economica di un modello del genere.

Bisognerebbe chiedersi, in altri termini, se sia possibile stabilire un collegamento fra la raccolta del dato, la sua elaborazione e la generazione di un ricavo per chi lo ha utilizzato per vendere un prodotto o un servizio. Oppure, volendo essere ancora più espliciti, bisognerebbe domandarsi se la pubblicità basata sui dati non sia una truffa, come il barile di alici che veniva compravenduto a prezzo crescente nel ghetto di New York fino a quando un gentile non lo aprì scoprendo che era marcio e così interrompendo la catena delle transazioni.

Analogamente alla bolla dei like usati come misura del valore di un contenuto online, anche i dati generati da cookie e tracker non consentono di sapere automaticamente e sistematicamente se il soggetto al quale è stato somministrato un banner personalizzato e che lo ha cliccato, poi ha effettivamente proceduto a comprare.

Dunque, nella catena del valore legata al digital marketing, mentre chi opera nei livelli intermedi (esperti di SEO, venditori di dati ecc.) è sicuramente pagato, l’unico senza sicurezze è proprio chi ha creduto che raccogliere dati potesse essere un valore in sé, per poi scoprire che tutta questa massa di informazioni produce costi “certamente certi” e rendimenti certamente eventuali.

E già che parliamo di costi e rendimenti, ai zelanti “sacerdoti della privacy” andrebbe chiesto per quale ragione, invece di arrabbiarsi perché non possono più leggere notizie gratis, non fanno la loro parte per contribuire a garantire la sopravvivenza dell’informazione professionale, pagando in moneta sonante l’accesso alle piattaforme che la veicolano.

Come scrive Riccardo Luna, il giornalismo non è un'impresa sociale pagata dallo Stato ma si retribuisce con i ricavi che è capace di generare. Due decenni di gratuità ci hanno portato ad una qualità dell’informazione sempre peggiore. E’ ora di provare a cambiare rotta. Tornare a investire nel giornalismo.