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Serve un ministero per la razionalizzazione tecnologica

Serve un ministero per la razionalizzazione tecnologica
(fotogramma)
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Le critiche mosse alla scelta del nuovo governo di non avere confermato il “ministero dell’innovazione” sono frutto di una discutibile interpretazione del concetto.

“Innovare” non equivale a “cambiare a tutti i costi” ma significa stabilire degli obiettivi, scegliere gli strumenti più adatti allo scopo e sopratutto prendersi il tempo necessario per arrivare al traguardo. Viceversa, il governo  non dovrebbe comportarsi come un qualsiasi “utente” di PC, ridotto all’impotenza e costretto a inseguire nuove versioni di prodotti che mettono strumentalmente fuori supporto hardware e software pur in grado di funzionare ancora in modo efficiente. Questo è un modo per paralizzare l’innovazione, non per incoraggiarla.

Dunque, se per innovazione intendiamo blockchain, metaverso, Nft, predittività e tutte le buzzword con le quali il marketing high-tech assorda cittadini, decisori e aziende, allora stiamo dando alla parola un significato che è funzionale alle strategie di un comparto industriale (largamente extracomunitario) ma non alle necessità della pubblica amministrazione e, in definitiva, dei cittadini.

Più che di un ministero per l’innovazione, dunque, servirebbe un ministero per la razionalizzazione tecnologica, con il compito di mettere a sistema l’enorme infrastruttura pubblica, oramai stratificata in ere a livelli da far impallidire la Troia di Schliemann.

Embrionalmente la normativa sui software a riuso secondo gli standard AgID e la circolare dell’Agenzia per la Cibersicurezza Nazionale sulla diversificazione tecnologica vanno nella direzione giusta ma sono soltanto l’inizio di un percorso molto più lungo.

Per esempio, sarebbe stato - ed è ancora - necessario stabilire che ciò che viene fornito alle amministrazioni non sia soggetto a obsolescenza programmata, che tutto ciò che non è più supportato dai produttori di tecnologia sia sottoposto a licenze “aperte” e che sia vietata l’incompatibilità. In parallelo, sarebbe necessario integrare verticalmente e orizzontalmente i sistemi informativi pubblici (e non è detto che la scelta di “CloudPA” sia necessariamente in grado di consentire questo risultato). Questo consentirebbe di rendere più efficienti i controlli sulla spesa pubblica e sulle attività dei cittadini, pur nei limiti del rispetto della legge.

Un ministro per la razionalizzazione tecnologica, da solo, potrebbe fare molte di queste cose. Ma se non bastassero i suoi poteri amministrativi, egli potrebbe chiedere al Parlamento di emanate norme specifiche o, se “innovare” è veramente così urgente, persino proporre al governo di emanare decreti-legge.

E già che si parla di normazione, tutto questo porterebbe alla luce le incongruenze parallizanti della burocrazia pubblica, facilitandone l’eliminazione. Un esempio per tutti: SPID, PEC e firma digitale qualificata (pur non perfetti) annullano la necessità di moltissimi certificati e timbri a secco. Perché continuano ad esistere e ad essere richiesti? Adottando un concetto più razionale di “innovazione”, diventa molto più (relativamente) semplice avviare un processo di ammodernamento tecnologico dal momento che sarebbero chiari i punti di partenza e quelli di arrivo. Soprattutto, sarebbe di cristallina evidenza che le tecnologie dell’informazione devono servire per migliorare la qualità dell’amministrazione pubblica e dunque la vita dei cittadini, non il fatturato di BigTech.