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Gli imperiali dilagano e la Duse in Friuli incoraggia i soldati

Un viaggio nella nostra storia nel centenario della grande guerra: luoghi, personaggi ed eventi in uno dei principali teatri dei combattimenti. La diciannovesima puntata

4 minuti di lettura

Quando la vita è appesa a un filo – ed è il filo del dolore che ci tiene legati come null’altro – è sufficiente anche una frivolezza per ridare vigore alla condizione morale: l’ho constatato percorrendo la bollente linea di fuoco lungo la gelida frontiera delle Alpi Carniche e delle Dolomiti venete, dove i soldati italiani, umiliati persino dai loro superiori, tentano di frenare l’avanzata degli austriaci dopo la sconfitta di Caporetto.

Notavo nelle nostre truppe quasi una rassegnazione di fronte all’incalzare del nemico, ma all’improvviso l’atmosfera è cambiata: ho pensato che la notizia di un successo militare fosse rimbalzata lungo le cime, ridando forza e coraggio ai soldati. Mi sbagliavo: la nuova, imprevista bandiera era rappresentata da una donna tra i soldati. Ma che donna! Era Eleonora Duse, la mitica attrice che dopo avere spezzato tanti cuori dai palcoscenici e nei sogni, ora li sosteneva sul terreno della guerra.

La diva era venuta a Udine già nell’agosto 1917 per organizzare il Teatro del Soldato. Dapprima era stata ospite a Tavagnacco della duchessa di Sant’Elia e in tale circostanza aveva conosciuto la famiglia del conte di Prampero, stringendo rapporti di affettuosa amicizia con la contessa Bianca.

Era a Udine quando erano incominciate le esplosioni a Sant’Osvaldo; terrorizzata, assieme alla signora che l’accompagnava nelle sue peregrinazioni, aveva raggiunto al più presto Tavagnacco, dov’era rimasta ospite per una quindicina di giorni. Dalla finestra della sua camera, nelle giornate limpide seguiva con un cannocchiale la linea di battaglia; non era solita uscire dalla villa, ma una sera aveva desiderato recarsi con l’amica Cecil Sorel a Cormòns per assistere a una rappresentazione nel Teatro del Soldato, dove aveva incontrato altri personaggi, tra i quali Armando Falconi, Ermete Zacconi, Arturo Toscanini, venuti in Friuli per incoraggiare le nostre truppe.

Lo scopo è stato ottenuto, ma purtroppo l’esercito nemico, rafforzato dall’alleanza con la Germania, dispone di forze maggiori rispetto al nostro, che accusa anche scarsità di armamento e incertezze nei comandi. Per salvare il salvabile, Cadorna ha ordinato la ritirata delle truppe prima fino al Tagliamento e poi sul Piave; sono quindi ridiventati austriaci il Carso e la Bainsizza, dove migliaia di italiani hanno lasciato la vita.

Con il dilagare dei nemici nella pianura friulana e a Udine (28 ottobre 1917) anche le nostre truppe combattenti in Carnia, sulle Dolomiti e sulle montagne trentine sono costrette a ripiegare su una nuova linea di resistenza arretrando nella bassa Valsugana fino a Valstagna, sul massiccio del Grappa e lungo il Piave fino all’Adriatico.

Se sul Carso e sull’Isonzo i soldati italiani avevano manifestato tutto il loro amor patrio combattendo con grande coraggio in un ambiente sconosciuto, contro nemici bene attrezzati e stimolati da condivise motivazioni, la guerra in montagna richiede a chi vi è impegnato un supplemento di sacrificio: la sfida della morte bianca.

È un nemico in più da affrontare, un nemico imprevedibile, . inatteso e silenzioso, un nemico vigliacco che non sai da dove si muova e dove vada. Le pareti delle montagne assomigliano un immenso schermo bianco, sul quale sembrano tracciarsi segmenti in movimento, in realtà nostri alpini che in fila indiana, o dietro un mulo, o trainando un cannone scavano e percorrono un nuovo sentiero fino a trovare tra le rocce lo spazio necessario per appiattarsi con un minimo di protezione, in attesa di conoscere le mosse del nemico. Tanti gradi sotto zero, tanti sorsi di grappa. Ah, che gola secca! Una fucilata di qua, uno scoppio di là. Ah, che bruciore in gola! «Ciapa, mona, e tasi».

Eccola. Da lassù un morbido fruscio nell’aria gelida e un sibilo immediato. Non fai in tempo a tendere l’orecchio. II gocciolone di grappa si perde nella neve che ti ha tappato occhi, naso e bocca togliendoti il respiro, senza darti il tempo di cullare per un attimo l’ ultimo dolce pensiero. Ecco la morte bianca, senza falce e senza mantello: le basta la scopa per smuovere la valanga che scende all’improvviso e rapida si trasforma in una gelida coperta stesa su un nuovo letto.

Su quei letti e sotto quelle coperte centinaia di alpini hanno lasciato la vita. Micidiali valanghe sono cadute lungo le pendici del Pal Piccolo, del Pal Grande, dell’Avostanis, dello Zellonkopfel, del Coglians, del Crostis. A casera Plumbs, sulla montagna che sovrasta Collina, trenta penne nere sono rimaste sepolte e vane finora sono state le ricerche dei corpi. La valanga aveva dimensioni eccezionali ed è precipitata fino a valle con un lungo boato che ha terrorizzato la popolazione; ritornato il silenzio, si è diffusa nella valle la credenza che a seminare la morte e il panico sia stata l’anima di Francesco Giuseppe, che ha chiesto soccorso al demonio per vincere la guerra.

Un’altra tragedia causata dalla neve è accaduta a casera Turriè, tra Dierico e Paularo, verso la forcella Pradolina, che dalla valle del Chiarzò comunica con la val Fella, in direzione di Pontebba. La casera era occupata dal comando del battaglione Monte Granero, da ufficiali e soldati agli ordini del maggiore Vincenzo Albarello, torinese, figura straordinaria di combattente, che si era meritato riconoscimenti per le azioni sul Monte Nero. La valanga ha travolto la casera, trascinando via uomini e cose.

Con l’aiuto anche della popolazione che conosce ogni anfratto della zona, sono incominciate subito le ricerche, ma non tutti gli uomini travolti sono stati trovati. Il maggiore Albarello, sottratto dopo ore dalla tomba bianca, prima di morire, con la mano rattrappita dal gelo, ha scritto un biglietto per incoraggiare i suoi uomini.

Nei primi giorni di novembre gli austriaci sono sul Tagliamento e la notizia che rimbalza tra le vette moltiplica l’impegno e gli sforzi degli alpini su tutto l’arco montano, ma i nemici sfruttano la superiorità numerica dei battaglioni, delle armi e delle strutture per infliggere gravissime perdite ai nostri reparti.

Lungo i passi che portano nella valle del Piave gli scontri sono continui e la ritirata degli italiani spesso inevitabile, anche a causa di ordini contraddittori e trasmessi in ritardo: è l’abnegazione dei soldati a evitare un’altra clamorosa disfatta come quella di Caporetto. Questa abnegazione comporta grandissime perdite di vite umane, che a loro volta incidono negativamente sull’efficacia della resistenza generale. I battaglioni Tolmezzo, Gemona e Val Ellero sono annientati al passo della Mauria; ora i fuochi si incrociano sul Grappa e sugli altopiani di Asiago, a Monte Fior e a Castelgomberto.

Le perdite italiane in queste battaglie sono di 10 mila morti, 30 mila feriti, 250 mila prigionieri; circa 300 mila soldati risultano sbandati perché dopo la ritirata non hanno fatto in tempo a unirsi ai reparti già in marcia verso il Piave. Molti provenienti dalla valle del Fella sono rimasti intrappolati sulle Prealpi di Pordenone, altri hanno perduto i contatti mischiandosi con quanti scendevano dal Bellunese, dal Feltrino, dalle Dolomiti venete e dal Primiero.

Da circa tre anni seguo le vicende di questa guerra che ha coinvolto una larga parte d’Europa, ma in tutto questo tempo non avevo mai nutrito certezze, limitandomi a riferire ragionevoli ipotesi degli Stati Maggiori dell’esercito; ora ho sotto gli occhi una realtà che mi provoca un senso di angoscia: troppe carenze nei Comandi, troppo sangue versato, troppi disastri irreparabili. Se il re e il governo non daranno un immediato segnale per una svolta efficace, la Patria italiana rimarrà azzoppata.

(19. Continua)

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