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Pasolini e il Pci, c’eravamo tanto amati

Otello Bosari a Udine. «Lui era un poeta geniale, ma il partito aveva bisogno di pragmatismo». La ferita di Porzûs

3 minuti di lettura

UDINE. C’eravamo tanto amati. In sintesi, è la storia nel rapporto tra Pasolini e il partito comunista. Una vicenda complessa, drammatica, di avvicinamenti, tensioni e aspre polemiche, a partire da quell’atto di espulsione che il Pci decretò nei confronti del professore casarsese dopo lo scandalo di Ramuscello.

Momento all’origine della fuga di Pier Paolo dal Friuli e svolta di un’intera esistenza. Dire cose inedite su tutto ciò pare impossibile visto che il pasolinismo è stato scandagliato, discusso e narrato in mille modi, eppure c’è ancora margine per fare scoperte interessanti, come quelle fornite da un piccolo prezioso libro pubblicato da Giacinto Bevilacqua, giovane editore di Meduna di Livenza.

Si intitola “Pasolini ti ricordo ancora” e propone alcuni intelligenti approfondimenti. Nino Roman esplora il periodo sacilese della famiglia Pasolini, durato tre anni e del quale poco finora si sapeva. Bepi Mariuz racconta il ben più famoso periodo casarsese, dal 1943 al 1950, indagando nei risvolti e negli aspetti meno noti. Angela Felice, che dirige il Centro studi Pasolini, fa il punto su come in Italia e nel mondo sia coltivata la memoria del grande poeta e artista, soprattutto dopo mesi intensi per i quarant’anni dalla morte.

Ma il libro curato da Bevilacqua (con ampio capitolo dedicato anche alle immagini, attuali e d’epoca) ha il suo asso nella manica nel testo scritto da Otello Bòsari, dedicato all’impegno politico di Pier Paolo e alle sue battaglie dentro e fuori il Pci. Bosari, classe 1929, è stato compagno di banco alle scuole elementari di Nico Naldini (lo scrittore che è cugino e biografo di Pasolini) e vive adesso a Cavasso Nuovo, nel Pordenonese.

Insegnante di storia contemporanea, è un testimone attento e significativo delle vicende friulane essendo stato consigliere regionale del Pci dal 1964 al 1978, quindi dalla nascita della Regione autonoma fino al primo dopo-terremoto, di cui ha narrato episodi e protagonisti in un recente libro, passato sotto silenzio, eppure utile per capire certi passaggi della nostra politica, in generale e per le scelte fatte dal Pci che nella fase post-sisma tornava per la prima volta in gioco con un ruolo strategico superando gli strascichi lasciati dalla guerra.

Otello Bosari non ha mai parlato di Pasolini a Udine. Lo farà domani, mercoledí 3 febbraio, alle 18, nella sala Corgnali della biblioteca Joppi in occasione dei dialoghi promossi dal direttore Romano Vecchiet. Con lui, a presentare il libro, ci saranno Giacinto Bevilacqua, Angela Felice e Bepi Mariuz.

Come anticipo a quanto sarà detto, ecco alcune frasi tratte dal testo di Bosari il quale, da lettore scrupoloso di Pasolini, spiega perché la dura decisione presa dal Pci nei suoi confronti fosse ineluttabile, in quel contesto sociale. Iscrittosi al partito nel 1947, dopo l’esperienza vissuta con gli autonomisti friulani, Pier Paolo si tuffò nel nuovo impegno pur avendo nel cuore la sofferenza per l’uccisione del fratello Guido nell’eccidio di Porzûs.

«Pasolini - dice Bosari - insegnava ai suoi allievi come si studia esortando a leggere i testi, non gli opuscoli di divulgazione che il Pci diffondeva in gran copia. Di fatto qui emerse subito un contrasto reale. Il Pci aveva bisogno di indottrinare le masse e gli iscritti. Era necessaria un’opera di orientamento univoca e produttiva di comportamenti immediati, anche a scapito dell’educazione al senso critico. Il limite di Pasolini era questo: nella lotta del Sanvitese vedeva una lotta di braccianti. In effetti era una lotta di mezzadri per modificare la divisione del prodotto.

Tutto il nocciolo della vicenda contrattuale gli sfuggiva perché era un poeta e non si poteva pretendere da lui l’elaborazione di un progetto di politica agraria o una proposta di sindacato. La sua propensione era di vedere il lato estremo delle situazioni e questo radicalismo lo portava a giocare il ruolo di profeta apocalittico. Ma per mobilitare le masse occorre elaborare il progetto di un domani migliore. I quattro cavalieri dell’Apocalisse generano solo disperazione».

Quindi, dice Bosari, un conto è l’intuizione poetica contro l’ingiustizia e un conto è la missione di un partito che deve dare organicità e prospettive alla protesta. Anche perché, sostiene l’ex consigliere regionale, il sogno di una cosa evocato nel romanzo di Pier Paolo si realizza comunque in Friuli nella forma di una nuova agricoltura, piú moderna e populista.

«Rileggiamo Pasolini per quel che era - conclude Bosari - e lui era un poeta, un geniale poeta. Molto invece resta da fare ad altri, storici e politici, perché, diceva Vittorini, un partito per vincere e governare deve avere con sé un sistema ampio di alleanze, se vuole farlo pacificamente e democraticamente, cercando motivazioni larghe e moderate, non quelle piú radicali». Bosari segnala infine un fatto: tra i giovani che seguirono il poeta nell’Academiuta casarsese nessuno militò poi nelle file del Pci negli anni ’50, i piú difficili per il partito.

Parole che evocano insomma l’eterno scontro tra poesia e pragmatismo politico attraverso ragionamenti anche inediti su Pasolini, grazie ai ricordi di uno splendido ragazzo di 87 anni. Tutti da ascoltare.

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