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Uomini e donne dell’Ottocento il doppio regime della moralità

Alberto Mario Banti al Teatro Nuovo ha tratteggiato la società delle forti asimmetrie Borghesi distinti sempre al lavoro, signore con eleganti scollature, ammirate e scelte

di VALERIO MARCHI
2 minuti di lettura
Tre persone – un uomo e due donne – affacciate a un balcone, assorte nei loro pensieri, con un velo di astratta tristezza sui loro visi. Ma di loro Édouard Manet non ci ha rivelato nulla; e la sua opera, “Il balcone” (1868-69), rimane tanto stupenda, quanto enigmatica. Ciò non significa tuttavia che si tratti di una fonte iconografica persa per lo storico. Specialmente se lo storico è Alberto Maria Banti, molto apprezzato dal folto pubblico del Giovanni da Udine ieri, alle “Lezioni di Storia” promosse dall’editore Laterza con la Fondazione del Giovanni da Udine, media partner il Messaggero Veneto, sponsor la Solari.

Troviamo, sia nel dipinto di Manet sia in altri dell’epoca, indicazioni circa il modo di vestire, in Francia e in Europa, della medio-alta borghesia nella seconda metà dell’Ottocento. Nell’uomo, niente di molto diverso rispetto a oggi. Le donne, invece, hanno vestiti bellissimi che le coprono completamente, arricchiti da pizzi, ricami e disegni: sono abiti complicati, ingombranti, delicati, espressione di una divaricazione di ruoli di genere. Gli uomini di classe alta vanno al lavoro, frequentano circoli e si muovono agilmente nella loro sfera, quella pubblica. Le donne, invece, adempiono i loro compiti in ambito domestico. Escono, sì, ma accompagnate in genere dal marito; oppure con la mamma, o con le amiche, ma in uno spazio specificamente femminile: basti ricordare che un romanzo di Émile Zola, ambientato in un grande magazzino, è intitolato “Al paradiso delle signore” (1883).

Una signora che non lavora “certifica” il successo del capofamiglia. Le ragazze, poi, non sono incoraggiate a proseguire gli studi, né a lavorare, e possono fare solo mestieri che rappresentino proiezioni simboliche del rapporto madre-figlio (insegnante, maestra, infermiera…). L’asimmetria è marcata anche a livello normativo e dell’etica della rispettabilità, ma con un doppio regime morale: da una parte, gli uomini si possono concedere molte libertà; dall’altra, invece, se a trasgredire è una donna tutto si fa tragedia. Può suonare strano, ma le donne, in particolare nelle classi nobiliari, erano più libere nell’Ancient Régime, allorché godevano di una grande libertà, anche sessuale. Le istituzioni democratiche rappresentative sono sorte non tanto senza le donne, quanto contro di loro: la misoginia nasce progressista. E forse capiamo perché sia tutt’ora così difficile una vera parità di genere, nonostante i progressi fatti. E perché ancora tanti uomini odiano e temono le donne.

Tornando all’Ottocento, la coerenza fra sistema etico, struttura dei rapporti di genere e modo di presentarsi in pubblico viene contraddetto – ma solo apparentemente – nelle occasioni di sociabilità borghese (feste, ricevimenti...), quando gli uomini non fanno vedere niente di sé, mentre le donne si offrono ai loro occhi con ampie scollature: gli uomini vedono e soppesano le donne, non viceversa. Ma lo scarto più impressionante si trova nel mercato dell’arte, giacché vanno molto di moda i “nudi”. Quasi mai maschili, mentre scorrono in Europa fiumi di umilianti nudi femminili: sempre ipocritamente allegorie, con ambientazioni mitologiche o esotiche, con elementi che la fantasia maschilista e imperialista occidentale apprezza senza considerarli perturbanti.

Se poi qualcuno si ribella, scatena reazioni furibonde. Capita allo stesso Manet (con “Colazione sull’erba” e “Olympia”), che ambienta nudi femminili nella sua contemporaneità per suggerire agli osservatori maschili che, quando conversano con una bella donna, la vedono nuda, per quanto proiettino le loro fantasie su scenari lontani; non solo, ma “Olympia” toglie persino l’illusione che nudità significhi di per sé subordinazione. Sarà poi la pubblicità commerciale a impossessarsi delle (poche) immagini di denuncia, stravolgendole per creare uno standard desolante, ripetuto sino alla nausea.

Nel 1914, a Londra, la suffragetta Mary Richardson danneggiò volutamente la “Venere allo specchio” di Velàsquez. Più tardi, spiegò: «Non mi piaceva proprio come gli uomini guardavano quel corpo di donna». Senza condividere il suo atto vandalico, possiamo capirne le motivazioni.

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