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«Il grande visionario che chiuse i manicomi»

Crepet racconta l’uomo che lottò per i diritti dei malati mentali

2 minuti di lettura

«Basaglia dev’essere ricordato e ringraziato». Paolo Crepet esordisce cosí, va dritto al cuore del problema: l’uomo della riforma psichiatrica, a 40 anni dalla sua approvazione, avvenuta il 13 maggio del 1978, fu decisivo. «Va ringraziato per ciò che ha fatto di straordinario e irripetibile: la lotta per i diritti dell’uomo, e fra gli uomini ci sono le persone cosiddette malate di mente».

Qual è stato il fulcro e il simbolo di questa lotta?

«La chiusura dei manicomi, che è anche una grande metafora: l’abbattimento delle mura, delle reti, delle gabbie. È questo che ha consegnato Basaglia alla storia».

Come riassumere, allora, il principio per il quale Basaglia ha speso la sua esistenza?

«Nessuno dev’essere internato per fragilità o disagi psicologici: siamo tutti uguali, nel senso che abbiamo tutti il diritto di essere ascoltati e aiutati; e, soprattutto, di non essere violentati».

Un’intuizione per certi versi semplice, ma grandiosa. Ritiene che si possa annoverare Basaglia fra i grandi combattenti del Novecento per i diritti umani?

«Certo: a fianco di Martin Luther King, Gandhi, Bertrand Russell… ma questo gli italiani non l’hanno ancora capito! Lui giocava proprio la grande partita dei diritti umani e infatti, a mio parere, il suo libro migliore non è “La maggioranza deviante”, per quanto importantissimo, bensì “Crimini di pace”, un’opera corale che ha riunito le grandi firme dell’intellighenzia liberal europea dell’epoca».

Possiamo definirlo un politico?

«No. Lui ha usato coscientemente la politica, perché gli serviva per parlare delle proprie idee. La sua grande capacità è stata quella di coniugare la pratica scientifica con quella politica, cosa che altri non sono riusciti a fare».

Ma la legge del 1978, detta “Basaglia”, e la riforma sanitaria che la seguì, furono davvero sue?

«Ha dato un contributo, ma fanno capo ai politici. Ricordo 40 anni fa a Roma, nell’aula magna del Consiglio nazionale delle ricerche, quando arrivò la notizia del varo della riforma: era alquanto indispettito... sapeva che bisognava in qualche modo giungere a un compromesso, ma non amava i compromessi.»

Sapeva anche, però, che era un grande passo avanti?

«Certo, ma si consideri che molto era già stato fatto con il referendum sui manicomi grazie a Marco Pannella, un altro “visionario” di quegli anni. Inoltre, una riforma del ’68 aveva già iniziato a toccare il monolite della legge del 1904, quella che aveva stabilito come criteri di internamento la “pericolosità sociale” e il “pubblico scandalo”, fungendo più che altro da strumento di protezione sociale dal “matto”, senza considerarne i bisogni e i diritti.

E ancora, prima del ’78 si evitò in alcune province la costruzione di nuovi manicomi, che – non scordiamolo – erano anche al centro di interessi economici».

Lei ha conosciuto Basaglia negli anni Settanta. Ma sa che rapporti ebbe con il Sessantotto?

«Non ne è stato un grande leader e, soprattutto, ha sempre dubitato dei tanti “intellettuali puri” in circolazione che parlavano, parlavano e non facevano niente. Lui era un “intellettuale organico”, sapeva che cosa bisognava fare e ci ha mostrato come farlo. E poi aveva già un “suo” movimento, e bastava a se stesso».

Basaglia è scomparso a soli 56 anni. Riesce a immaginare come avrebbe proseguito la sua opera?

«Credo sempre più a livello internazionale, come d’altronde aveva già cominciato a fare. Aveva un ottimo rapporto con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, per cui forse si sarebbe allontanato dalla realtà italiana, senza cadere nella provocazione di addossarsi tutte le responsabilità di una riforma che era quella dei partiti che l’avevano votata. E forse si sarebbe anche distaccato dalla psichiatria, per occuparsi di altre grandi emergenze: oggi, a esempio, lo vedrei impegnato in quella degli sbarchi in Sicilia».

Scorge all’orizzonte qualcuno che assomigli a Basaglia?

«No, non con il suo carisma e le sue capacità. In questo momento storico manca una figura così trainante e radicale. Uno che non sia solo un mediatore: di quelli ce n’è un milione…».

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