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«Un maestro dell’inclusione che la scuola trascura ancora»

Il regista Marco Turco parla del grande riformatore della psichiatria attivo a Gorizia «Il suo libro “L’istituzione negata” è un testo utilissimo per fare accoglienza»

2 minuti di lettura

Nella ricorrenza dell’approvazione, quarant’anni fa, della legge 180 – la riforma che cancellò i manicomi –, la Rai manderà in onda il film su Franco Basaglia del regista Marco Turco (Roma, 1960), laureato in Storia e Filosofia, regista e sceneggiatore. Già aiuto-regista di Franco Giraldi, Damiano Damiani e Gianni Amelio, ha firmato il suo primo lungometraggio (“Vite in sospeso”) nel 1998. Con il film in due parti “C’era una volta la città dei matti”, ha ricevuto importanti riconoscimenti.



«La prima volta che entrai all’ex ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste sapevo che mi stavo mettendo su una strada lunga e difficile, ma non avevo idea del mondo in cui sarei entrato»: così Marco Turco ricorda quel 2009 in cui girò nel nostro capoluogo regionale numerose sequenze della miniserie televisiva “C’era una volta la città dei matti”, trasmessa da RaiUno nel 2010.

Dopo il successo, nel 2007, della fiction su Rino Gaetano, che cosa la spinse a raccontare Franco Basaglia?

«Basaglia è uno di quei personaggi che più mi piacciono, che “non stanno al posto giusto”… Agli anni Settanta, poi, ritorno sempre: li ho vissuti con grande intensità e mi piace riviverli. In questo caso, però, decisi di scegliere il fenomeno che conoscevo di meno».

Ma perché un film per la tv?

«Al cinema l’avrebbero visto solo i pochi che già conoscevano l’argomento, mentre io desideravo favorire la massima diffusione: sapevo che i più avevano bisogno di uscire dall’ignoranza, proprio come ne stavo uscendo io, e mi proposi una finalità anche divulgativa, “didattica”».

A proposito: nelle scuole di Basaglia si parla?

«Poco o niente. Eppure il suo libro “L’istituzione negata”, del 1968, meriterebbe di essere diffuso come i grandi classici, perché è un testo imprescindibile e attualissimo sulla tolleranza e sull’inclusione. Certi manicomi pre-basagliani possono essere paragonati a molti centri d’accoglienza di oggi e, in generale, a tutti quei posti in cui la società confina coloro che non sa come gestire, di cui non sa che farsene».

L’esperienza del film ha avuto un seguito?

«Ho vissuto in simbiosi con questo film per anni: nel 2011, a esempio, è stato pubblicato il libro “C’era una volta la città dei matti. Un film di Marco Turco dal soggetto alla sceneggiatura”. Nel frattempo, e in seguito, si sono susseguite in Italia e all’estero sia partecipazioni a vari festival sia rappresentazioni nelle occasioni più varie, talora inaspettate».

Può fare qualche esempio?

«In Svizzera, per rimanere vicino a noi, il film ha avuto un ottimo successo. Ma ci tengo a ricordare anche sviluppi straordinari, dalla Cina all’Iran. In Svezia, poi, alcuni corsi universitari lo hanno addirittura adottato come una sorta di “libro di testo”».

Quali sono state le reazioni della psichiatria italiana?

«Dopo la messa in onda, Peppe Dell’Acqua – all’epoca direttore del Centro di salute mentale di Trieste, e aiuto fondamentale per il film – mi disse che tanti suoi giovani colleghi lo chiamavano per dirgli di avere finalmente capito che cosa aveva fatto Basaglia. Fu un riscontro incoraggiante e indicativo».

È vero che lei avrebbe voluto girare a Udine le scene relative a Gorizia, dove Basaglia lavorò negli anni Sessanta?

«Sì. Le strutture goriziane, rinnovate all’interno, non erano adatte all’ambientazione negli anni Settanta. Volevo utilizzare l’ex manicomio di Udine, che sarebbe stata una sede molto appropriata, ma non c’era l’agibilità. Così abbiamo dovuto trovare un altro luogo idoneo, a Imola».

Fra gli attori troviamo non solo professionisti di grande spessore e notorietà, da Fabrizio Gifuni a Vittoria Puccini, ma anche alcuni che venivano dal disagio mentale.

«Sì, e la cosa non deve sorprendere: a Trieste, dai tempi di Basaglia, si era dato spazio all’attività recitativa dei pazienti. Per me è stata un’esperienza fortissima dal punto di vista umano, perché convivere con loro fa cambiare tante prospettive. All’inizio mi capitò di provare paura e tendevo a ritrarmi, ma ho imparato a fermarmi ad ascoltare anche ciò che non riusciamo a capire, o che forse non vogliamo capire. Ed è questa, in fondo, la grande lezione di Basaglia».

Una curiosità: come prese l’iniziativa del film la figlia di Basaglia, Alberta?

«All’inizio era molto diffidente. Disse: “Non ve lo posso impedire…”. Poi, però, è diventata una nostra fan appassionata!».

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