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«Non lasciamo il Paese nelle mani di quelli dell’“Ultimo banco”»

Il popolare conduttore tv riflette sui rischi del populismo «La scuola è centrale nella formazione di una collettività»

2 minuti di lettura

“Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia” è il titolo del saggio appena pubblicato da Giovanni Floris, popolare volto tv nei programmi di attualità. Lo storico Valerio Marchi, che è anche docente al liceo scientifico Marinelli di Udine ha avuto modo di interpellarlo e di dialogare.

di VALERIO MARCHI

«A guidare il Paese rischiamo di mandarci quelli dell’ultimo banco», scrive Giovanni Floris nel suo libro “Ultimo banco”, edito da Solferino. Fuor di metafora, quelli dell’ultimo banco sono i fautori dell’estrema semplificazione del linguaggio e dei concetti, tipica di ogni populismo. Ma come potremo mai affrontare sfide epocali quali le migrazioni, il terrorismo o le nuove povertà, senza le parole per spiegarne la complessità?

Partiamo da queste premesse per chiedere all’autore innanzitutto la ragione del sottotitolo: “Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia”.

«Quando a scuola facevamo un pasticcio, la maestra ci diceva: “Ricomincia da capo”. Anche noi dobbiamo ricominciare da capo e affidare a chi ha in mano il sapere il compito di trasmetterlo. La scuola è fondamentale nella formazione di una collettività, e se questa collettività perde la capacità di governare il presente, allora deve ripartire, rimettersi a studiare».

Serve domandarsi di chi è la colpa?

«No. Potremmo dire di tutti, se siamo a questo punto: genitori, studenti, insegnanti, politici... Ma serve solo chiederci come intervenire».

Con quale primo passo?

«Aumentare lo stipendio dei docenti, perché sia evidente che si dà un alto valore alla loro funzione: solo ripartendo da una cosa cui diamo valore e che è di grande utilità possiamo sperare che la collettività migliori. A forza di abbassare gli stipendi a chi non ci piace, dimentichiamo di alzarli a chi se lo merita, come la maggior parte dei docenti».

Scrive anche, però, che «un insegnante non ha scuse». Perché?

«Perché non può appellarsi alla difficoltà del contesto: il suo ruolo rimane il più importante anche quando la società non glielo riconosce, e deve svolgerlo come una vocazione».

Nel libro troviamo addirittura un paragone con i supereroi...

«Sì, a esempio come l’Uomo Ragno: in un contesto che non riconosce valore e merito a ciò che fa, lui non deve comunque mollare».

Per i supereroi, però, si dice “grandi poteri, grandi responsabilità”... è proprio così per gli insegnanti?

«No, gli insegnanti in effetti hanno grandi responsabilità, ma i poteri non glieli dà nessuno».

E vengono sempre meno rispettati, anche a livello fisico!

«È come se si fossero allentati di colpo i freni inibitori. C’è una grave crisi generale di perdita di autorevolezza di ogni istituzione: è questo il problema da risolvere, tornando a scuola. Ma la domanda di fondo è: quanto, anche al di fuori delle aule, è diffuso il rispetto per l’insegnante?».

La scuola ha avuto le sue riforme, dobbiamo concepirne un’altra?

«Più che una riforma, propongo una rivoluzione del pensiero, per tornare a capire che la cosa più importante è formare i giovani all’elaborazione teorica. Il mio prof di Filosofia diceva: “Non c’è nulla di più pratico di una buona teoria”: è vitale pensare, studiare, trasmettere il sapere e riconoscerne il valore».

Rimane tuttavia diffusa l’idea che i professori lavorino poco...

«Dire che le ore di lavoro dell’insegnante sono diciotto settimanali è come dire che io lavoro tre ore e mezza a settimana, o Lilli Gruber ed Enrico Mentana mezz’ora al giorno… C’è molto di più nel lavoro fatto bene da un insegnante, come in quello di un conduttore».

Talvolta non danno una mano neppure i genitori degli studenti.

«Creano problemi quei genitori che vivono la scuola come un servizio dovuto, che si pongono come se fossero clienti di un negozio o hanno l’idea che un professore, invece di formare i loro figli, possa essere di ostacolo verso il “successo” sperato».

Che cosa ritiene più necessario dire agli studenti?

«Che capiscano il periodo che stanno vivendo, uno dei pochi della vita in cui si fa attenzione al prodotto letterario e artistico, o ai concetti matematici, avendo a disposizione il mondo della cultura. Dopo avranno sempre meno tempo da dedicare al confronto con l’assoluto, con i concetti. Se sprecano questi anni, li rimpiangeranno per sempre».

E ai docenti scoraggiati?

«Che tornino a farsi sentire, rivendicando il valore del loro lavoro e pensando che, magari, saranno proprio i loro studenti a salvare il Paese».

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