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Italiani “brava gente” a colonizzare l’Africa: ma non fu affatto cosí

Ottantamila emigrati al servizio dell’impero fascista Episodi di violenza e razzismo, in Etiopia furono brutali

2 minuti di lettura

Emanuele Ertola con “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” edito da Laterza; Marco Mondini con “Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna”, Il Mulino; e Marco Monte con “La grande carestia del 1813-1817 in Friuli. L’ultima grande crisi di sussistenza del mondo occidentale” edito da Gaspari: sono i tre finalisti del premio nazionale Friuli Storia, quinta edizione, che sarà assegnato da una giuria scientifica affiancata da una popolare di 200 lettori. Il 5 ottobre la premiazione a Udine.

di VALERIO MARCHI

«Maledetta l’Africa e il giorno che ci sono venuto»: scrisse, nel novembre 1940, Almerico Muzio, colono italiano in Etiopia.

Ma quanto era comune un simile rigetto?

«Le esperienze dei circa 80mila italiani in Africa dopo la guerra d’Etiopia, con la nascita dell’Impero italiano, furono inevitabilmente variegate. Tuttavia, una profonda delusione era assai diffusa. All’esaltazione iniziale seguì il malcontento».

Alla fine del 1940 però lo si può anche capire, in piena guerra...

«La guerra influì certamente sull’epilogo drammatico dell’esperienza coloniale, ma le radici del fallimento affondavano negli anni precedenti: mancarono conoscenze, programmazione e una direzione univoca, anche a livello economico».

Quale fu la percezione all’estero dell’“impresa” etiopica?

«Di condanna quasi unanime ovunque nel mondo. Ma il regime ne tenne all’oscuro gli italiani».

Uno scarto netto, dunque, fra aspettative e realtà.

«Anche in questo caso, come in altri dell’Italia fascista, fu enorme la distanza fra teoria e pratica, con un progetto minato da numerose disfunzioni e da una capillare corruzione».

Eppure le premesse sembravano allettanti...

«La propaganda fu imponente. Si favoleggiava di una società-modello bianca di oltremare, razzialmente pura, pienamente fascista, che presentasse l’Italia al mondo come una grande potenza, in ideale continuità con il passato romano… Per i coloni giunti dalla madrepatria, poi, c’era il miraggio del benessere e delle nuove opportunità».

C’erano ulteriori motivazioni?

«Bisognava, innanzitutto, trovare nuovi sbocchi per una spinta migratoria che non poteva più dirigersi in massa verso l’estero. Né era sufficiente la migrazione interna».

Il libro su quali aspetti si concentra in particolare?

«Soprattutto delle vicende di donne e uomini comuni: dove e come emigrarono, quali erano le loro aspettative, com’era la loro vita quotidiana, come interagirono con l’ambiente etiopico, e così via».

Una storia sociale dunque.

«Esattamente. Ho voluto colmare un vuoto storiografico, esaminando l’espansione coloniale italiana come vicenda umana complessa, e proprio per questo estremamente indicativa e interessante».

Quali fonti ha utilizzato?

«Ho integrato i documenti prodotti dall’amministrazione coloniale con quelli dei coloni: diari, memorie, scritti privati che fanno sentire la voce stessa dei protagonisti».

Ha utilizzato anche fonti estere?

«Sí, a esempio le relazioni dei diplomatici britannici e francesi in Etiopia».

Ricorre l’80° dalla legislazione fascista antiebraica; ma essa fu preceduta da un altro tipo di normativa razzista...

«In effetti, spazi e rapporti umani in Africa erano marcati da barriere legislative segregazioniste precise e severe, sebbene spesso aggirate».

I coloni maschi non potevano avere relazioni con le africane, ma questo era un bel problema. Come si tentò di rimediare?

«Con una sorta di deportazione di donne bianche dall’Italia. Inizialmente prostitute, ma non bastava. Allora si presero altri provvedimenti, a esempio invitando in modo più o meno coatto le dipendenti del Ministero delle colonie a trasferirsi in Etiopia: ufficialmente per lavoro, di fatto per risolvere l’emergenza sessuale. Non dovevano nascere “meticci”».

“Italiani brava gente”: un mito?

«Violenza e razzismo caratterizzavano ogni genere di colonialismo, e gli italiani non fecero eccezione. Anzi, benché non si possa ridurre tutto a questi aspetti, nel caso italiano e dell’Etiopia rileviamo episodi e atteggiamenti anche più forti e brutali rispetto ad altri contesti coloniali».



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