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Il rifugio sotto un abito talare per sfuggire alla follia senza senso

La figura di Roberto Gentilli è tra le più rappresentative di quel periodo di terrore Le continue fughe con la famiglia in Toscana e in Veneto e l’aiuto di don Gardumi

1 minuto di lettura

Nel primo articolo dedicato agli ebrei friulani colpiti dalle leggi razziali fasciste e dalle persecuzioni, abbiamo ricordato Elio Morpurgo e la sua famiglia. Un’altra figura rappresentativa è l’ingegner Roberto Gentilli.

valerio marchi

Nato a Udine nel 1923, Roberto Gentilli è morto a Grado tre anni fa, il 10 luglio del 2015. I suoi genitori, Giulio ed Elisa Jona, erano originari di San Daniele e di Venezia. Sposò Antonietta Ermacora, ancora viva, dalla quale ebbe tre figli.

Nel 1938 le leggi razziali impedirono a Roberto di frequentare regolarmente il liceo “Stellini”, dove comunque si diplomò nel 1941 come privatista. Poi, fra il 1943 e il 1945, la “caccia all’ebreo” lo costrinse a cercare rifugi fra Toscana e Veneto.

Disse, molti anni dopo: «Essere diversi perché ebrei, una sensazione improvvisa e alienante... Da un momento all’altro, senza che in me e nelle persone che conoscevo fosse cambiato nulla, mi sentii respinto, isolato».

Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia e la caduta di Mussolini (luglio 1943) la sua famiglia, auspicando una rapida risalita degli Alleati lungo la Penisola, si spostò verso sud riparandosi a Monte San Savino, presso Arezzo. Poi tornò a Udine in attesa degli eventi, che però con l’8 settembre precipitarono. Ben poco si conosceva di ciò che stava accadendo, ma si sapeva per certo che bisognava evitare a ogni costo tedeschi e fascisti, per cui i Gentilli tornarono in Toscana.

Gli alleati però non avanzavano e la situazione era sempre più rischiosa. Roberto si era trasferito con sua madre Elisa (il papà era mancato nel 1941), le sorelle Regina e Magda, lo zio Nino con la moglie Rita e le loro figlie Bruna, Bianca, Liliana, Umbertina; c’erano poi Leo Mendes (marito di Bruna), Emma Bassani Morpurgo (sorella di Rita) e Rino Borghello (che non era ebreo, ma seguì la moglie Magda).

Davanti al crescente pericolo, il gruppetto si divise. Roberto, Elisa, Regina e Magda ripararono a Verona, dove furono soccorsi da don Vittorio Gardumi, dell’Ordine degli Stimmatini, che alcuni Gentilli già conoscevano. Furono così sistemati: le due sorelle in due conventi nei pressi della città; Roberto e la mamma, invece, in una casetta situata... fra una caserma di tedeschi e una di repubblichini! Madre e figlio rimasero lì un anno e mezzo, fino all’inizio del 1945, allorché don Gardumi ritenne più sicuro ospitarli nella Casa Madre.

Roberto ricevette una carta d’identità falsa e indossò un abito talare (un ebreo travestito da prete, dunque...) I religiosi del convento, che conoscevano la sua identità, lo trattavano bene. C’era in particolare un sacerdote, Goffredo Friedmann, che il nostro Gentilli descrisse come «commovente nella sua partecipazione alle tragedie umane della guerra», aggiungendo: «Rimane un costante, profondo e vitale, sentimento di gratitudine». —







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