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Quando società e scienza diventano specchio del male

Edito nel 1818, “Frankenstein” di Mary Shelley era figlio delle paure dell’epoca Tematiche ancora attuali sulla natura dell’uomo, i limiti e le conquiste mediche

2 minuti di lettura

Valerio Marchi

Nel 1816, a villa Diodati, sul lago di Ginevra, in una delle tante notti tetre e burrascose di quell’ “anno senza estate”, Mary Wollstonecraft Godwin (poi Mary Shelley) concepì “Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno”: con un esplicito richiamo, dunque, al mito del titano che, per donare all’umanità luce e progresso, non esita a sfidare l’autorità divina, pagandone le conseguenze.

Edito per la prima volta nel 1818, il libro riflette tanto la cultura e le sofferte esperienze dell’autrice, quanto lo sfondo storico e i dibattiti etico-scientifici del tempo. La scienza moderna era sempre più in grado di fare e promettere “miracoli”; tuttavia, non sfuggivano agli occhi più acuti alcune inquietanti prospettive. Infatti il terrore, nel “Frankenstein”, non proviene – come per altri romanzi gotici – da fantasmi e forze soprannaturali, bensì dall’uomo e da esperimenti ritenuti fisiologicamente possibili, come quelli per rianimare i cadaveri. Inoltre, non è ambientato in un lontano medioevo, ma all’epoca della scrittrice, per indicare che si parla di quella realtà, non di un’altra. Con uno sguardo inquieto sul futuro che, di fatto, introduce al genere fantascientifico.

La creatura del dottor Frankenstein è figlia – scrive la Shelley – del tentativo di «scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo». Il cosiddetto “mostro”, comunque, nasce buono e gentile, e diventa poi anche colto ed eloquente, ma si tramuta in «demone» a causa del rigetto subito sia da parte del suo artefice sia da chiunque lo incontri. Ma – si riflette leggendo – chi è allora il vero mostro? Lo scienziato-creatore? Oppure (o anche) la società?

Senza ridursi a una sorta di manifesto contro la tecno-scienza, “Frankenstein”, oltre a scavare nell’animo umano, offre una prefigurazione visionaria che, dopo due secoli, ci spinge ancora a riflettere su questioni di varia natura, da quelle di più antica origine (il male che nasce dall’assenza del bene, la paura del diverso, l’esclusione sociale, il capro espiatorio, il sogno di comprendere il mistero della vita, il nostro rapporto con la natura, il pericolo di perdere il controllo di ciò che creiamo) sino a quelle più recenti (i confini tra vita e morte, i limiti degli interventi delle tecnologie biomediche, la clonazione, la fecondazione artificiale, le creature artificiali, e così via).

Alcune domande e affermazioni che la creatura rivolge al suo artefice umano rimangono di notevole attualità: «Come osi giocare a questo modo con la vita? Tu sei il mio creatore, ma io ora sono il tuo padrone».

Etimologicamente, “mostro” significa consiglio, monito, avvertimento. Attenzione, ci dice Mary Shelley, le possibilità sono tante e spesso entusiasmanti, ma i danni che facciamo non sono sempre emendabili; non solo, ma senza fissare limiti, e trascurando la nostra umanità e i nostri affetti (come capita a Victor Frankenstein, divorato dalla sua passione di “benefattore” e “creatore”) rischiamo seriamente di generare ciò che più temiamo: la morte. —



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