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La figlia di Basaglia: "La rivoluzione di mio papà ha insegnato a non aver paura"

A 40 anni dalla legge Alberta Basaglia ricorda il padre, il famoso psichiatra, e continua la lotta. «Il suo pensiero è perfettibile, ma se viene messo in pratica funziona»

Valerio Marchi
2 minuti di lettura

Alberta Basaglia: "La rivoluzione di mio papà ha insegnato a non avere paura"

UDINE. Alberta Basaglia, figlia di Franco, è psicologa e vicepresidente della Fondazione Franca e Franco Basaglia. Per il 40° della Legge 180 del 1978 (“Legge Basaglia”), ha incontrato gli studenti del liceo scientifico Marinelli di Udine. Presente anche il dottor Marco Bertoli, direttore del Dipartimento di salute mentale della Bassa friulana-isontina.

Dottoressa, con quale animo partecipa a incontri come questo?

«So di correre almeno due rischi: fare la parte solo della figlia - cosa che ho sempre tentato di evitare - e togliere valore ai risultati di tante lotte e di tanto lavoro, santificando una persona. E questo non deve accadere, anche se mio padre era una brava persona».

E poi, oltre a queste comprensibili remore?

«In genere evito di citare mio padre, ma disse che il lavoro fatto aveva dimostrato che era possibile fare a meno dei manicomi. Bisogna dunque cogliere queste occasioni per parlarne, affinché non si torni a pensare e fare come prima».

Nel libro “Le nuvole di Picasso” racconta la sua esperienza di bambina che ha vissuto quella rivoluzione. Cosa le diceva suo padre?

«Niente. Mai discorsi diretti. Sempre, però, il coinvolgimento diretto nelle cose. In famiglia era normale pensare che vi fossero persone da liberare, il che significava anche dover affrontare frangenti difficili».

La casa, dunque, era anche un ambiente di lavoro.

«Sia a casa che fuori si elaborava un pensiero nuovo sulle persone private di diritti e di dignità, che erano rinchiuse e che non potevano né vedere il mondo né farsi vedere dal mondo».

Poi si è accorta che la sua non era la vita di tutti...

«Nel ’68 vidi il documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele”, che parlava di ciò che succedeva a Gorizia, dove gli orrori dei manicomi erano ormai lontani. A Gorizia c’era una comunità terapeutica inaugurata nel ’62 dall’équipe diretta da Basaglia, che dava finalmente valore alla persona. Ma altrove non era così. Ho capito allora che la nostra non era la vita di tutti».

Da bambina aveva paura dei malati mentali?

«Sì, fa sempre paura uno tanto “diverso” da te, ma quella persona esiste e non si può far finta che non sia così. Instaurando un rapporto, tutto diventa più facile. Soprattutto, non si deve avere paura della paura. I miei genitori non mi hanno mai trasmesso paura».

A proposito: e sua madre, Franca Ongaro?

«Si inseriva nel lavoro quotidiano di mio padre, in ospedale e nell’elaborazione del pensiero: Franco e Franca erano la fusione di due generi diversi. Costruendo un pensiero comune tra maschile e femminile, forse possiamo incidere di più nel mondo che ci circonda».

Come affrontare la malattia mentale?

«Partendo dall’ascolto, dalla comunicazione e dalla volontà di restituire un ruolo umano e sociale al malato. Non per negare la malattia, ma per avere a che fare prima con la persona e dopo, nel rapporto con quella persona, con la malattia».

Quale valutazione dare della “Legge Basaglia”?

«È perfettibile, ma se viene messa in pratica funziona. Non è facile, anche perché oltre alla volontà c’è un problema legato ai fondi necessari».

È cambiato l’atteggiamento verso i malati mentali?

«Può dirlo meglio chi è venuto dopo Basaglia. Se permangono la paura, il non voler vedere, il rinchiudere allora nulla è cambiato. Se invece si dà per scontato che chi sta male non deve essere legato né maltrattato, allora qualcosa è cambiato».

Corriamo qualche rischio?

«Mio padre indicò il pericolo di vedere di nuovo persone legate e private dei loro diritti. Le realtà cambiano, ma i problemi restano gli stessi: anche oggi esistono o si prospettano luoghi di segregazione per persone considerate “diverse”».




 

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