L’occupazione dei cosacchi in Carnia, la promessa mantenuta dai nazisti
Un libro ricostruisce la presenza per sette mesi in Friuli di truppe e famiglie giunte dalla Russia

Nel corso della Seconda guerra, la Carnia fu luogo di esperienze originali, che fecero vivere alle sue valli una storia particolare, pur nell’ambito di quella cornice più ampia e quasi universalmente condivisa che fu rappresentata dal conflitto mondiale.
La più nota, di queste esperienze originali, fu senza dubbio il Governo della Zona Libera della Carnia, risultato della forza e delle peculiarità del movimento partigiano, del radicamento popolare della lotta di Resistenza, dell’andamento delle operazioni militari, delle condizioni geografiche e strategiche che favorirono la decisione comune (del Clnai, del Cvl, dei comandanti delle formazioni osovane e garibaldine) di procedere a quel tentativo di governo democratico dal basso, modello auspicato della futura repubblica italiana.
La seconda esperienza, direttamente collegata alla prima, è quella della presenza e dello stanziamento in Carnia delle truppe cosacche, integrate nell’esercito tedesco di occupazione che aveva creato a inizio guerra la Adriatisches Küstenland (Zona d’operazioni Litorale Adriatico).
Sono i cosacchi a partecipare alle azioni di rastrellamento e riconquista che, nell’ottobre 1944, porteranno alla conclusione della Zona Libera (quella della Carnia fu, tra le circa quindici instaurate in tutta Italia, quella che durò più a lungo), iniziando quell’opera di insediamento delle proprie famiglie che era il risultato della promessa fatta a suo tempo dalle autorità naziste per ringraziare i cosacchi dello sforzo bellico condotto prima contro l’Unione Sovietica e poi sempre a fianco dell’esercito tedesco.
È una storia che ha fatto da sfondo, per restare al versante letterario, al romanzo di Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, del 1985; e al lungo e affascinante racconto di Claudio Magris, Illazioni su una sciabola, che è invece del 1984. È una storia che è stata tramandata soprattutto per via orale, e che è rimasta viva nella Carnia mescolando sempre più immaginazione e realtà, mitologia e cronaca.
Patrizia Deotto ci presenta adesso, con questo suo breve e intenso lavoro Stanitsa Tèrskaja. L’illusione cosacca di una terra (Verzegnis, ottobre 1944 - maggio 1945), l’opera forse più compiuta, dettagliata e precisa di quei mesi, avendo potuto utilizzare fonti italiane e russe, e in particolar modo la memoria di chi ha vissuto quei giorni. È un racconto che si inserisce a pieno titolo in quel fervore di studi che ha cercato, negli ultimi anni, di raccontare la vita civile dietro e accanto la guerra, ponendo attenzione agli eventi ma anche ai sentimenti di chi li ha vissuti, fornendo uno spaccato quotidiano e per nulla ideologico di un’epoca che è sempre stata raccontata attraverso i suoi momenti salienti e attorno ai suoi valori più rilevanti.
Qui, come si vede fin dalle prime pagine, domina il compromesso con la vita di chi, avendo subito e non voluto la guerra, partecipa tuttavia con sacrificio e determinazione alla lotta per liberarsi della presenza straniera e del giogo della dittatura. Ma è presente, soprattutto, una umanità che è disposta alla solidarietà e alla convivenza pur in mezzo ai travagli di un conflitto sanguinoso e di una presenza (quella cosacca) che ha sconvolto l’ordine sociale e culturale senza curarsi degli effetti che avrebbe prodotto.
È un racconto, questo di Patrizia Deotto, che vuole essere un omaggio – di ricostruzione storica, di verità, di analisi antropologica e culturale – tanto alla gente di Carnia e al modo con cui ha vissuto quella difficile e comunque insolita esperienza, quanto ai cosacchi stessi, trapiantati con l’illusione e la speranza di ritrovare una terra per le loro famiglie prima di poter far ritorno alla propria patria. Con i paradossi di cui è piena la storia, spesso proprio nei suoi momenti più tragici, gli “occupanti” cosacchi furono quelli, alla fine, che pagarono il prezzo più alto: in termini di vite umane, di sradicamento, di perdita della propria identità, proprietà, tradizione.
Non vennero trattati, come sarebbe stato più giusto, come truppe di occupazione sconfitte, come esercito in ritirata e fatto prigioniero, come responsabili di violenze e di crimini commessi con la giustificazione e la scusa della guerra. Ma vennero, tutti senza distinzione, consegnati alla vendetta di Stalin, militari e civili, capi militari e famiglie operose, assassini e contadini.
Patrizia Deotto, attraverso la voce dei cittadini di Verzegnis e della Carnia, mostra come fosse stato possibile – anche per chi al momento subiva l’occupazione e la sopraffazione – mantenere un atteggiamento di curiosità e di giustizia, di ostilità e di comprensione, di diffidenza e di solidarietà. Ed è questo stesso partecipe distacco che la conduce a ripensare a una storia passata ma che ha lasciato sedimenti e riflessi nella memoria individuale e collettiva. E che oggi, forse, può essere compresa meglio nelle sue componenti più personali, umane e psicologiche, facendone un evento di carattere globale, non solo militare e non solo politico.
È questo un contributo significativo, pur nel suo carattere circoscritto, a quel tentativo di unire, nella narrazione della storia contemporanea, la cronaca oggettiva dei fatti e la percezione soggettiva di chi li ha vissuti. A proporre una sintesi in cui la particolarità dell’evento e l’originalità dell’esperienza soggettiva, trovano la possibilità di trasmettere considerazioni più generali, riflessioni utili per una ricostruzione pubblica del passato, valori a carattere universale.
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