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Quel “dialetto colorato” che non finiva mai di stupire

2 minuti di lettura

Un testo del poeta e scrittore Roberto Roversi sul periodo bolognese condiviso con Pasolini e pubblicato dal periodico friulano “Macchie” nel 1981 e contenuto nel volume “Il Parlar franco. Il félibre friulano di Pier Paolo Pasolini” di autori vari.

***

Roberto Roversi

Il Liceo Galvani in via Castiglione e il preside Chiorboli, specialista del Petrarca, con due baffi di segno particolare, molto caratteristici. La libreria Cappelli in via Farini, dove si andava a parlare e a cercare i libri di poesia che si pubblicavano in giro. Da Cappelli capitava Antonio Meluschi; dopo abbiamo conosciuto anche sua moglie, Renata Viganò. (...). Dunque Otello Masetti (capo commesso della Cappelli) mise in contatto il nostro gruppetto con un uomo che vendeva e vende ancora libri vecchi in una bottega di piazza San Domenico al n. 5. Fu in quel posto e per queste vie che Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Luciano Serra pubblicarono a loro spese i quattro libretti per i “tipi della Libreria Antiquaria Mario Landi”. (...).

Poesie a Casarsa di Pasolini hanno la data di pubblicazione del 14 luglio 1942 e si stamparono presso l’Anonima Arti Grafiche di piazza Calderini in 300 copie numerate, oltre a 75 fuori commercio destinate ai critici. Il libretto, di 48 pagine, era dedicato “A mio padre” e si apriva col verso già allora nuovo e diverso: “Fontàne d’àghe dal mè pais” (Fontana d’acqua del mio paese). Nella ristampa del 1954 in “La meglio gioventù” anche questo verso è cambiato così: “Fontana di àga di pais no me”.( Fontana d’acqua di un paese non mio)

Da allora non ho più rivisto Pasolini fino al ’55 quando abbiamo avviato “Officina”: dopo la fine della rivista, nel ’59; l’ho visto ancora quattro o cinque volte ma negli ultimi dieci anni non l’ho più incontrato. Con questo voglio dire che ho avuto una sincera amicizia di giovinezza con Pasolini, anche insieme ad altri, ma che fin d’allora era piuttosto un incontro culturale che un rapporto di sentimenti; e infatti entrambe le volte, quando la tensione nel fare si allentò o fu conclusa, ciascuno riprese la sua strada. Non ero suo compagno di classe; Pasolini stava con Telmon, Bignardi e altri; al Galvani o intorno al Galvani non me lo ricordo; ci si trovava altrove a camminare e più spesso a casa sua.

Abitava con la madre e il fratello un appartamento in via Nosadella davanti ai Sordomuti (una tipografia); e lì, insieme anche a un altro suo compagno di classe, Manzoni, recitavamo. Gli irlandesi, soprattutto Synge: Cavalcata a mare e Il furfantello dell’ovest; leggevamo, imparando, nella buona traduzione di Linati. Posso dire che Pasolini era nel fare le cose che ci interessavano, subito bravissimo; aveva una straordinaria tranquillità e rapidità nello scrivere che non finivano di stupirmi; e cominciò a prevalere su noi con la straordinaria invenzione del dialetto colorato (come mi sembrava), cioè di una lingua esasperata sentimentalmente ma con tanto trattenuto pudore (una lingua abbastanza celestiale, nel senso giusto) da renderla nuova e diversa, cioè vera e originale. (...).

E arrivo a un ricordo che ho sempre tenuto vivo. Siamo ai giardini Margherita, seduti su un prato appena tagliato: fra lo splendore giallo s’alza un profumo compatto, molto padano, del fieno falciato, a cumuli, che si sta asciugando. Poca gente, solo presenze colorate di donne e ragazze che camminano qua e là. Noi tre seduti (Leonetti, Pasolini, io) parliamo di una rivista che vogliamo fare, che “dobbiamo fare”.

Il nome già proposto è “Eredi”. Parliamo con una leggerezza che è felicità, per una cosa finalmente importante; per una decisione nostra che dovremo realizzare impegnandoci. Ci sentiamo infervorati. Passa un uomo in bicicletta, è in borghese; adagio, cerca con la testa; ha bisogno di parlare? Ci vede, si avvicina, non si ferma; dice a voce bassa: Hitler ha invaso la Russia. È il 22 giugno del ’41 e noi eravamo, in quel momento della nostra giovinezza, fuori dal mondo (...). —



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