«Riflettere su sé e quindi su tutti» l’Autoantologia di Valerio Marchi
È uscita nelle librerie l’opera poetica del docente, storico e scrittore udinese Le liriche si interrogano ora sul senso della vita e del tempo, ora sugli affetti
antonella sbuelz
L’esordio è declinato nelle forme di una leggerezza ironica e pensosa, nell’accezione assegnata al termine da Italo Calvino: non la futilità o l’evanescenza che restano in superficie e svaporano in fretta, ma la levità meditabonda di chi non intende prendersi troppo sul serio, pur potendolo fare.
Scrive infatti così Valerio Marchi, nella premessa alla sua ultima silloge poetica: «Ora, le cose stanno così: ho compiuto da poco il mio sessantesimo anno, per cui, statisticamente parlando, sono nell’ultimo quarto del mio viaggio terreno. (...) E allora mi consento, a questo punto, un atto di deliberata presunzione. Mi autoantologizzo». Ne deriva un titolo coerente, accattivante, lievemente pepato: Autoantologia poetica. Sottotitolo, caustico ed esplicativo: Un gesto di consapevole presunzione. Il testo esce in questi giorni, edito con la consueta cura nell’ambito della collana “Poesia” dell’editrice Kappa Vu.
Docente, storico, biblista, giornalista, conferenziere; più di recente, anche autore di teatro: questa, e in questo esatto ordine – citando le sue stesse parole – l’istantanea di Valerio Marchi. Appassionati e rigorosi risultano inoltre, va detto, i suoi studi relativi alla storia dell’ebraismo, con particolare attenzione a Otto e Novecento. Ma nel corpus della sua eclettica produzione saggistico letteraria, unico e coerente – verrebbe da dire: imperativo – è il genere di scrittura che accompagna Valerio fin dall’infanzia: la scrittura poetica. E si coglie subito la collaudata frequentazione dell’autore con la misura ipnotica del ritmo, con la seduzione della musicalità, con la materia fonetica della versificazione, con l’impulso cadenzato della parole.
Ma è soprattutto l’ascultazione della vita – nei suoi pieni e nei suoi vuoti, nelle sue fragilità e contraddizioni – che si impone fin dai primi versi dell’Autoantologia di Marchi, a partire dalle Figure che abitano la prima Sezione dell’opera: personaggi letterari o storici, rappresentazioni simboliche o allegoriche che sembrano incarnare voli e schianti della nostra umana, umanissima avventura, svelandone la fame di eterno e gli inciampi quotidiani nella meschinità.
Ognuna di queste figure esprime, in forte propulsione metaforica, la propria aspirazione alla luce e la propria la condanna all’esilio in un’ombra ferita: «Siamo un capolavoro con un tarlo/ che riempie il nostro affresco di veleno», confessa la voce di Michelangelo. Ma la voce di Rilke, in una sorta di controcanto accorato, replica suggerendo di spostare lo sguardo ad altre dimensioni: «Tutto cadrà, ma v’è Uno che regge/ questo cadere eterno d’ogni cosa,/ ricomponendo tutto nella legge/ che rende dolce la caducità/ della poesia, che ferma e senza posa/ girovagando cerca eternità».
E se l’Anticristo di Intermezzo, «sia che t’alzi o che ti siedi/ ti ha legato mani e piedi» e si impone in una luce livida, proiettata da idoli al tempo stesso antichi e postmoderni, nell’ampia sezione successiva, dal titolo Niente di nuovo dal fronte, una forma di riscatto – per quanto imperfetto e approssimativo – sembra essere offerto dalla bellezza della poesia che cura il male di vivere e dallo sforzo di onestà intellettuale della Storia, le cui strategie di indagine e memoria sono in grado di sottrarci alla tentazione dell’oblio: “Su quale fronte sei approdato – uomo – / che sfuggi alla memoria di chi vive/ e sei catalogato, ma scompagini/ quest’ordine malato?/ Resta la Storia – resta la Poesia».
E tuttavia è qui, nel cuore di questa sezione – nelle tre liriche di “Sull’Altipiano” – che l’orrore della guerra sembra incarnare l’indicibilità di un dolore universale e di una brutalità che disumanizza ogni possibile umanità: «Se non hai conosciuto i momenti/che precedono il grido d’assalto,/ non conosci la guerra./ Sono gridi, lamenti e preghiere/ disperate, rivolte a qualcuno,/ a se stessi, a nessuno».
E se le liriche delle due sezioni successive si interrogano sul senso profondo della nostra collocazione nel mondo e nel tempo – in un mondo e in tempo profondamente uguali a se stessi e tuttavia inesorabilmente cambiati – i versi della sezione Focolare si aprono a nuclei tematici nuovi e accendono note di struggente tenerezza. Ci muoviamo allora, in punta di piedi, fra sillabe che pronunciano l’intimità degli affetti familiari: «Figlia che mi dai forza/ e mi dissangui/ Figlia che spargi vita/ e che l’assorbi/ Figlia che rubi il tempo/ e me lo insegni /Figlia che mi fai vecchio/ e allarghi i giorni».
Ma è l’Epilogo della raccolta che ne focalizza e riassume le diverse anime, esprimendo il senso profondo di una ricerca che si svela, al tempo stesso, poetica ed esistenziale.
Le due poesie conclusive, infatti, mettono a nudo, congiungendole idealmente, l’infanzia e la morte: i primi versi scritti da un Valerio ancora bambino (toccante, per me, riconoscermi pienamente in quella candida vocazione infantile) e il momento di estremo commiato terreno dalla madre.
Ed è nell’immagine finale di quella “Terra alla terra – la fine al suo principio” che prospettive e dimensioni sembrano connettersi e abbracciarsi, mentre assenze e presenze fanno pace: in un unico equilibrio ricomposto, in un unico orizzonte condiviso. —
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