L’Angelo dei muri di Bianchini, il regista udinese racconta il suo ultimo lungometraggio: «Una riflessione sulla solitudine»
LAURA PIGANI
UDINE. Ogni solco sul viso di Pietro nasconde un pezzo di passato con cui l’anziano continua a fare a botte. Vive in un malandato appartamento a Trieste, in un vecchio palazzo. Solo. Poi arriva un’ordinanza di sfratto che devasta la sua quotidianità e lo spinge a trovare una soluzione per restare nell’unico posto che considera casa e “combattere” i nuovi potenziali inquilini, finché una mamma con la figlioletta lo costringeranno a fare i conti con i propri demoni.
È un “condensato” de “L’Angelo dei muri”, creatura del regista udinese Lorenzo Bianchini (“Custodes bestiae”, “Oltre il guado”) che dopo la prima mondiale al Torino film festival domani sarà proiettato in anteprima speciale al Cinema Ariston di Trieste.
Scritto dal regista, Michela Bianchini e Fabrizio Bozzetti, è stato prodotto dalla friulana Tucker Film, con Rai cinema e MYmovies, il Fondo Audiovisivo Fvg, la Fvg Film Commission, il Mibact e Re-act. L’uscita nelle sale regionali del film, girato tra San Vito al Torre e Trieste, è programmata per giovedì 19, il 2 giugno quella nazionale.
Finalmente ci siamo, arriva al cinema L’Angelo dei muri. Si tira un sospiro di sollievo?
«Finalmente, sì. L’incubazione è stata lunga, complice la pandemia che ha rallentato molto i lavori. Fortunatamente avevamo già effettuato le riprese (cinque settimane) prima del lockdown, quindi mi sono potuto concentrare su montaggio e post produzione durante i mesi di chiusura. È una bella emozione presentare a Trieste “L’Angelo dei muri”, sarà una serata dedicata al film e alla città».
Un film potente, realizzato con un set “basico” allestito tra Trieste e San Vito al Torre...
«Gli esterni sono tutti triestini, le scene di interno, invece, sono state girate in una villa di San Vito al Torre, che simulava magnificamente l’appartamento austroungarico in cui è ambientato il film.
Le finestre reali, però, erano al piano terra e quindi abbiamo utilizzato scenografie ed effetti digitali per farlo sembrare un appartamento all’ultimo piano di un vecchio palazzo».
Un cast azzeccato, tra cui un meraviglioso Pierre Richard che con la sua espressività rende inutile qualsiasi parola, e un direttore della fotografia come Peter Zeitlinger. Cosa volere di più?
«Pierre (interpreta Pietro), icona del cinema francese, riesce a esprimere emozioni anche senza dire nulla, ha questo grande dono. Perfette anche la coprotagonista, l’attrice slovena Iva Krajnc Bagola e la piccola cividalese Gioia Heinz. La fotografia è ottima, Zeitlinger, collaboratore di Werner Herzog, è una garanzia. Tutti hanno contribuito a dare un respiro europeo al film».
Pure musiche, suoni e scenografie si amalgamano a meraviglia.
«La scenografia è la metafora della vita, con le crepe che simboleggiano le ferite, le goccioline d’acqua che scendono dal muro sembrano lacrime. Anche l’appartamento esprime la sua inquietudine, così come tutti i rumori, i cigolii, il vento. E la musica, nei punti giusti, ha un grande peso nel rendere surreale quell’appartamento».
Quale messaggio per il pubblico?
«È una riflessione sulla solitudine di un uomo arrivato alla fine della sua esistenza. Pietro costruisce un muro in fondo al corridoio dell’appartamento dietro il quale continua a vivere segretamente nella casa, in uno spazio angusto. Trova il modo di riflettere sulla sua vita, sui traumi che l’hanno stravolta, fa i conti con i suoi errori e cerca di fare pace con il suo passato».
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