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L'esperto: i rischi ci sono, ma latte e mozzarelle si possono mangiare

Decine di controlli nelle aziende del Friuli. Via alla sperimentazione sull’uso di infestanti non tossinogeni in agricoltura

2 minuti di lettura

UDINE. I telefoni del Servizio igiene degli alimenti e della nutrizione dell’Ass4 hanno cominciato a suonare di prima mattina, quanto i tecnici dei Servizi veterinari sono partiti per fare i campionamenti in una decina di aziende di allevatori che conferiscono il latte alle Latteria Friulane. Le domande di tante famiglie preoccupate per il nuovo caso di contaminazione del latte hanno cominciato ad arrivare e con queste la paura per i rischi causati dal “latte alle aflatossine”.

È il direttore del servizio Aldo Savoia a fare chiarezza sull’argomento.

Dottor Savoia, quali i rischi?

«Il rischio “zero” in alimentazione non esiste e non è neanche mai esistito. Questo vale sia per i contaminanti naturali, come le micotossine, sia per quelli legati all’inquinamento prodotto dall’uomo, come le diossine. Penso che, come cittadini e consumatori, sia giusto essere attenti, ma la fuga da latte e mozzarelle, ricotta e formaggio è assolutamente ingiustificata e rappresenta una reazione emotiva che altre volte abbiamo visto generare caos e sconcerto. Mi sento invece di dire che quanto successo conferma che il livello dell’attenzione di tutti gli organi di controllo (Nas, Servizi veterinari e Servizi igiene degli alimenti) è alto in materia di sicurezza degli alimenti, che si tratti di contaminazione con sostanze tossiche naturali come nel caso delle micotossine quali le aflatossine, così come per altre forme di contaminazione. Non dobbiamo dimenticare che esistono sia i controlli sulla materia prima all’immissione sul mercato da parte di chi raccoglie la produzione primaria, sia prima della trasformazione, cioè prima della vera e propria produzione di latte e formaggi pronti al consumo. C’è l’autocontrollo delle imprese e c’è il controllo ufficiale dei Servizi dell’Ass».

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Cosa si sa sulle micotossine e sulle aflatossine?

«Quello delle micotossine è un problema noto da moltissimo tempo se assunte in grande quantità sono dannose a fegato e reni. Anche dosi molto basse, assunte nel corso del tempo, possono presentare una tossicità “cronica”, a lungo termine, che si manifesta con problemi al sistema immunitario (immunosoppressione) o con lo sviluppo di neoplasie. Si tratta allora di capire qual è il livello accettabile».

Da dove vengono le micotossine?

«Le muffe che producono queste tossine vivono sulla pianta di mais, di frumento e di altre colture e si sviluppano soprattutto durante i periodi di siccità. Possono poi svilupparsi anche dopo il raccolto, se lo stoccaggio non è effettuato correttamente. Oggi conosciamo il problema, si può controllarlo agendo sulle buone pratiche di coltivazione prima e, poi, nella conservazione, su microclima, temperatura e umidità di stoccaggio. Sappiamo che dobbiamo buttare via le derrate ammuffite né darle da mangiare al bestiame, visto che poi rischiamo di ritrovarcele, trasformate ma comunque tossiche, in tavola. La presenza di una piccola quantità di queste sostanze naturalmente prodotte dalle muffe però è pressoché inevitabile in molte derrate, dal mais al grano, dall’uva al caffé alla frutta secca».

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Quali sono i limiti di legge?

«I limiti previsti dalla normativa europea sono estremamente cautelativi. Ha ragione chi dice che in Usa e in molti altri Paesi il latte può contenere ben 10 volte la quantità di aflatossina M1 permessa in Europa, tra l’altro sulla base delle indicazioni della Fao e dell’Oms. Ma il cosiddetto “principio di massima precauzione”, che per l’Ue abbassa ulteriormente i limiti è pienamente condivisibile».

Come ci si può difendere?

«Dobbiamo accettare un certo livello di rischio. Molto però possono fare le buone pratiche agronomiche per ridurre la presenza di micotossine nei mais, ad esempio, coltivare varietà con granella semivitreo, anticipare le semine, evitare investimenti fitti, concimazioni sbilanciate, ridurre gli stress idrici, controllare le infestanti. E proprio a livello di queste ultime, si sta sperimentando un ceppo di Aspergillus che contamina i raccolti sul campo ma produce un ceppo non tossinogeno. Un sistema che potrebbe ridurre la presenza di aflatossine»

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