Boris Davidovic, il teatro fa i conti con la rivoluzione
Drammaturgia coinvolgente e visionaria con Ivica Buljan al Mittelfest sul testo capolavoro di Danilo Kis

“Una tomba per Boris Davidovic”, l’altra sera in prima assoluta al Mittelfest, è uno dei sette racconti che compongono il volume eponimo, cui il grande scrittore Danilo Kis, affidò il «resoconto romanzesco dell’autodistruzione di quel furibondo cavallo di Troia che rispondeva al nome di Comintern» (cosí Josif Brodskij nella postafazione dell’edizione italiana).
Un racconto forte soprattutto di una visionarietà e ricercatezza letterarie a suggerire il fatto «che – ancora Brodskij – la letteratura è l’unico strumento per conoscere quei fenomeni la cui portata altrimenti ottunderebbe i nostri sensi e sfuggirebbe alla nostra comprensione».
Come le vicende che hanno segnato tragicamente la vita di questo oscuro eroe della rivoluzione che è stato, appunto, Boris Davidovic.
Nato sul finire dell’800 da pii genitori ebrei, spese la sua esistenza rocambolesca all’insegna di un’unica passione: «La difficile, esaltante e misteriosa professione di rivoluzionario».
Attraversò tutti i fermenti che agitarono gli anni precedenti e quelli immediatamente successivi la rivoluzione russa, subí il carcere tredici volte, esiliato e infine relegato nel nord dell’Unione sovietica dove, nel 1937, decise di porre fine alla sua esistenza lasciandosi cadere nell’altoforno di un’acciaieria.
Si diceva della scrittura densa e magmatica di Kis, febbrile come la vita del suo protagonista, non sempre lineare, attenta al senso profondo piuttosto che al mero dato biografico.
E come tutte le materie in cui la vita esplode in mille rivoli e frammenti, e tanto piú se a sorreggerla è una vocazione etica molto radicata e inscalfibile come nel caso di Davidovic, non poteva non incontrare l’immaginario di un regista visionario e radicale, genialmente provocatorio, come Ivica Buljan.
Il quale nel suo spettacolo (non a caso una coproduzione tra diversi paesi della ex Jugoslavia, a dire il bisogno affatto strumentale di fare i conti con il passato di un regime e di un’ideologia che hanno lasciato segni e ferite non ancora del tutto riassorbiti e/o elaborati), ha sostanzialmente illustrato il testo di Kis, affidandone la lettura agita a nove giovani attori, che con molta energia si sono prodigati a dare forma scenica, come fosse un copione, alla pagina scritta.
Che a sua volta, nelle immagini e nelle situazioni che animavano il palcoscenico, trovava echi, atmosfere e tensioni che spesso la travalicavano, offrendo allo spettatore una coinvolgente sarabanda di suggestioni visive ed emozionali.
Una maggior inventiva drammaturgica, però, che non costringesse il pubblico a seguire il testo in traduzione sul display appeso sul boccascena, ma si affidasse invece alla sola forza delle azioni e dell’interpretazione degli attori, avrebbe giovato e di molto alla piena fruizione anche da parte di un pubblico non a conoscenza della lingua serba.
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