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Il nipote di Vanni Padoan: sono offeso, è tutto falso

Raoul Nadalutti non crede che almeno 200 persone siano state sepolte a Rosazzo: "Ho anche forti perplessità sulla credibilità di chi ha apposto la firma"

2 minuti di lettura

UDINE. Era già successo per l’eccidio di Porzus. Oggi la storia sembra ripetersi. Il nome di Vanni Padoan viene nuovamente accostato a un massacro, questa volta dalle proporzioni più enormi. Dentro quella presunta fossa comune a Rosazzo ci sarebbero, stando al documento della Farnesina, tra le 200 e le 800 persone. E Vanni ne sarebbe stato il responsabile insieme al comandante Sasso.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) «Ci sono testimonianze sulla fossa comune»]]

Raoul Nadalutti è il nipote di Padoan. In questi giorni ha seguito l’evolversi della vicenda. «Mi sento offeso – dice –. Pensare alla vita di quegli uomini che, come mio nonno, hanno vissuto l’esperienza del carcere politico, l’esilio, hanno messo a repentaglio la propria vita e in molti sono morti per la nostra libertà, e, allo stesso tempo, leggere certe insinuazioni, mi crea grande sdegno».

Padoan nacque a Cormons nel 1909. Nel 1934 venne arrestato e condannato a 16 anni di prigione, dal quale ne uscì per amnistia nel 1941. Dopo l’armistizio di Cassibile, divenne commissario politico della Divisione Garibaldi “Natisone” e successivamente vicecomissario del Raggruppamento Divisioni Garibaldi "Friuli". Fu lui nel 2001, dopo essere stato sottoposto a processo, condannato a trent’anni per omicidio in appello a Firenze e in via definitiva in cassazione, infine graziato nel 1959, ad assumersi la responsabilità dell' “Eccidio di Porzûs”.

Ora a quindici anni di distanza da quell’amara verità, un nuovo mistero scuote il mondo dei partigiani. Oggi Vanni non c’è più. Non potrà più dire quello che accadde realmente tra i boschi e le rocce di Rosazzo. Il nipote stesso afferma: «Né io né mia madre, figlia del Commissario Vanni, abbiamo mai sentito parlare di una foiba e fossa comune nella zona di Rosazzo né da mio nonno, né da altri».

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Il procuratore De Nicolo: abbiamo avviato un’indagine stiamo cercando la verità]]

Affermazioni che fanno il paio con quella di Vanni Donato, figlio di Dante, il comandante osovano di Premariacco tirato in ballo dal documento come persona informata dei fatti di Rosazzo. «Fino a qualche giorno fa - continua Raoul - non avevo mai sentito parlare del signor Vanni Donato.

Ma lo ringrazio per la sua sincerità e sono orgoglioso che, nel 1951, il comandante partigiano osovano Dante Donato abbia voluto dare al figlio il nome di mio nonno, Vanni. Per chi minimamente capisce qualcosa di psicologia dei nomi, o semplicemente per chi è dotato di logica, solo questo fatto può far intendere come sia evidente che il documento sia senza il minimo fondamento. Chiamereste vostro figlio con il nome di una persona che avrebbe compiuto questo massacro?».

Restano però molti lati oscuri. Che necessità c’era di fare uscire il documento a settant’anni di distanza? «Non so se il documento sia vero o falso - spiega ancora Raoul -, ma credo assolutamente sia falso il contenuto. Credo che il documento sia uscito solo ora per attendere che scomparissero tutte le persone citate, onde evitare la possibilità di essere smentiti in maniera circostanziata dai diretti interessati».

E poi c’è un ultimo interrogativo legato alla firma del maggiore Domenico Lo Faso, al termine del documento. Lo stesso Raoul Nadalutti pone dei dubbi.

«Non riconosco – conclude – la firma del maggiore La Faso apposto in calce. Ma a parte quello, da persona interessata alla storia, posso dire che, in vista dei possibili processi contro i criminali di guerra italiani, Domenico Lo Faso faceva parte del gruppo incaricato di “trovare” documenti utili a dimostrare che i “cattivi” erano gli altri.

Che poi a Roma giungesse un documento in cui le cavità carsiche si trovano sul Collio e dove si fa scomparire nel nulla un paese di 800 persone, forse serviva a dare volume alla documentazione, non certo a descrivere situazioni reali»

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