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Il figlio del testimone: "Così venivano uccisi nella vecchia cjasate"

Renato Paoluzzi ha reso noto ai carabinieri i racconti del padre. «In un rudere le esecuzioni da parte di “partigiani” dell’ultima ora»

2 minuti di lettura

MANZANO. La chiamavano «la cjasate». I bambini negli anni ’60 ci andavano a giocare. Prima era, invece, un luogo di torture ed esecuzioni da parte di delinquenti che, dietro la maschera del buon partigiano, compivano delitti.

A raccontare i fatti e i misfatti di quell’epoca è Renato Paoluzzi. Abita ad Oleis, non distante da Poggiobello. Giorni fa ha ricevuto la visita dei carabinieri e ha reso testimonianza. Ha parlato, come molti altri in questi giorni. «Ho detto la verità. Le mie – sottolinea, quando lo contattiamo – non sono bugie, ma racconti fatti dai miei genitori e dai miei nonni».

Il suo racconto è puntiglioso e parte proprio da quel rudere in mezzo alle colline. «Ci andavo lì quando ero bambino con i miei amici». Renato oggi ha 60 anni, ma i suoi ricordi sono nitidi. «Spinto dalla curiosità – dice – sono anche tornato in quei posti sabato scorso, ma non ho più trovato la cjasate. Dicevano tempo fa che fosse stata demolita. Ma non so se credere. Tornerò a cercare nei prossimi giorni».

La cjasate si è portata via con sè anche gli eccidi del passato. Lì sarebbero state portate decine e decine di persone «per le esecuzioni – spiega Paoluzzi –. Così raccontava mio padre». «Badate bene – tiene a puntualizzare – non parlo di partigiani. Non sono stati loro a commettere gli omicidi. Almeno, non quei partigiani, eroi della Resistenza, che ricordiamo per la loro lotta nelle montagne. Ma delinquenti che dietro la maschera di combattenti facevano di tutto, anche razzia nelle case».

Episodi insomma ce ne sarebbero stati, come racconta il sessantenne di Oleis, la cui testimonianza è al vaglio degli inquirenti: dal camionista che trasportava formaggi per le trupppe tedesche fatto scomparire nel Bosco Romagno ai reppublichini di Salò uccisi dietro la casa proprio di Paoluzzi. «Mia madre vide tutto – dice – ma non seppe mai che fine fecero quei due fascisti. Così di molti altri. Gente che spariva da un giorno all’altro nelle nostre zone e che nessuno seppe mai dove furono sepolte».

Di fosse comuni Paoluzzi non sentì mai parlare da ricordi e racconti dei propri parenti. «Ma della cjasate sì. Eccome». Tra le vittime anche i tedeschi . «Come quella volta – racconta - che mio padre vide due tedeschi colpiti a freddo alle spalle. Ma anche in questo caso non so che fine fecero i cadaveri».

La cjasate era anche luogo di «gozzoviglie», bivacco per feste durante il terribile conflitto. «Andavano nelle case e depredavano tutto – parla ancora Paoluzzi –. Non solo uomini ma anche donne che puntavano il fucile o la pistole ad altre donne minacciandole di dare tutto quello che c’era in casa».

Paoluzzi ha reso testimonianza davanti ai carabinieri per circa mezz’ora. «Non so se quel documento della Farnesina che parla di una fossa comune di addirittura 800 morti sia vero. Di sicuro è stato un bene che sia uscito alla scoperto qualcuno per cercare la verità. Perchè è giusto fare giustizia sugli eventi che accaddero in queste colline – conclude il sessantenne di Oleis –. Sono stati episodi di un tale obbrobrio che meritano di essere approfonditi. Ci sono troppi lati oscuri che vanno approfonditi. Sono successe troppe cose strane. Ma la colpa non va data ai partigiani che combatterono per la libertà. Quelli che commisero quei delitti non hanno nulla a che fare con gli eroi della Resistenza. Erano delinquenti. Punto e basta».

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